Trasformare una scelta di cantina in una creatura del campo. Un percorso inverso rispetto al solito, e irto di difficoltà. Che ci son voluti - racconta Gianmaria Cesari, spalle e azienda solide, 4 milioni di bottiglie prodotte nella Romagna di collina - dieci anni buoni a superare, realizzando il progetto che era stato suo papà Umberto ad avviare, e che si chiama Merlese. Il nome di un vitigno che non c’era, ottenuto incrociando per impollinazione Merlot, appunto, e Sangiovese: creature epigone di mondi diversi, ma sovente sposate dagli enologi nella pratica di cantina di cui sopra. Ma i Cesari non volevano limitarsi a produrre un (diciamo così) super romagnolo; ma acquisire alla Romagna un nuovo autoctono con stimmate speciali. Tempo, fatica - e tenacia contro i primi insuccessi - il segreto d’un risultato battezzato con orgoglio Solo (c’è solo un’uva, il Merlese, dentro) che oggi vale 4 ettari e 3000 bottiglie (finemente vestite in nero e argento) del plafond della casa. Partorito in cocciopesto e vetrocemento (no legno), fruttato goloso e seduttivo al naso (aereo ma merlottante), in bocca il Solo sangioveseggia, teso, setoso, ben croccante di acidità. E pronto a battere in breccia - e nel calice - le eventuali resistenze dei fautori di un passato che non si tocca e per i quali la ricerca dovrebbe fermarsi ogni volta, timida, sull’orlo d’un conformismo mascherato da tradizione.
(Antonio Paolini)
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