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VINO E MERCATI

Usa, le nuove rotte del vino italiano: il futuro è in “provincia”, anche per i “piccoli”

A WineNews Gioia Gatti (Ice New York), Marina Nedic (Iem), Riccardo Ricci Curbastro (Federdoc) e Andrea Rossi (Consorzio Nobile)
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Il Purple Cafè, il wine bar più alla moda di Seattle

L’Italia del vino, dopo anni di leadership quasi incontrastata sul mercato Usa, che rappresenta oltre un quarto delle spedizioni enoiche tricolori, sta vivendo in questi primi mesi del 2019 un periodo di appannamento, crescendo a ritmi decisamente inferiori di quelli dei propri competitor, specie della Francia. Non c’è da preoccuparsi oltre il dovuto, ma il momento apre necessariamente a qualche riflessione sullo “spazio” che occupa il vino italiano. Innanzitutto quello geografico, ancora limitato alle piazze più consolidate, come New York, e poi quello sullo scaffale, dove il Belpaese è ancora legato al ruolo centrale delle denominazioni e dei territori più conosciuti, con i più piccoli e gli emergenti, che pure avrebbero le carte in regola per sfondare, che fanno ancora fatica. Dalla tappa di Seattle, nello Stato di Washington, che chiude lo U.S. Tour del Simply Italian Great Wines firmato dalla Iem, ne abbiamo parlato con Gioia Morena Gatti, responsabile Agroalimentare e Vino dell’Ice di New York, che non nega qualche difficoltà. “Sicuramente c’è una tendenza negativa che riguarda i vini rossi, ma potrebbe benissimo essere dettata dalla stagionalità, mentre sui vini bianchi continuiamo a mantenere la leadership e gli spumanti continuano a crescere, e questo ci incoraggia. C’è comunque tanto da fare, ma più che altro perché la varietà del nostro patrimonio vitivinicolo non è ancora nota a gran parte dei consumatori americani, specie se consideriamo che le Coste, East e West, possono contare su un’offerta decisamente superiore a quella che si può trovare negli Stati interni - spiega Gioia Gatti - e per questo ci stiamo dedicando ad esplorare nuove aree, sia con attività di formazione sul trade che con eventi di promozione in città normalmente non toccate da iniziative del vino italiano”.

Senza ovviamente dimenticare l’importanza avuta sin qui dalle “grandi denominazioni, cui dobbiamo riconoscere il ruolo di pionieri del mercato americano, ma questo patrimonio deve essere consolidato ed ampliato, per questo all’attività di formazione stiamo destinando risorse importanti: in ogni tappa dei dieci Stati target coinvolgiamo trenta studenti che arrivano dal settore del trade, quindi sommelier, importatori e distributori, proprio perché pensiamo che più conoscono il vino italiano e meglio riusciranno a venderlo. L’attività formativa dura tre giorni in ogni città, e verte su denominazioni e territori, perché è da lì che nasce tutto. In questo momento ci siamo focalizzati sulle mete che stanno mostrando trend positivi, come la Pennsylvania, il Colorado, lo Stato di Washington, Boston, che di solito sono fuori dalle rotte commerciali - conclude Gatti - ma dove c’è tanto lavoro da fare”. Specie perché, come ricorda Marina Nedic, a capo, insieme a Giancarlo Voglino, della International Exhibition Management, “ogni Stato degli Usa è diverso dall’altro, ci sono modalità di distribuzione diverse, tipologie di consumi differenti, e Seattle dimostra che il vino italiano, al di là di New York, California, Florida e Illinois, può avere il suo spazio ovunque. La vasta provincia americana in questo senso andrebbe presidiata, ma per farlo ci vogliono gli sforzi congiunti di aziende ed istituzioni. Va sempre considerato che l’americano è un consumatore che prima di tutto guarda ai prodotti del proprio Paese, ma quando decide di rivolgere la propria attenzione verso l’Europa è normale che rimanga colpito dal vino italiano, capace di esprimere tutta la ricchezza storica e culturale dell’Italia attraverso la diversità dei suoi vini, che però va fatta conoscere. Non è facile dire come - aggiunge Marina Nedic - né quanto tempo ci voglia, ma di certo è un mercato che premia: se domani andassimo in Texas o a Milwaukee troveremmo lo stesso interesse che ci ha accompagnato in queste tappe. L’americano è curioso ed ha le risorse economiche per soddisfare la propria curiosità, per questo bisogna insistere, sia con il vino che con il resto delle nostra produzioni agroalimentare, nonostante i sistemi di protezione da superare”.

Sullo sfondo, resta il problema dei dazi, che hanno sì risparmiato il vino italiano, ma che, come spiega Riccardo Ricci Curbastro, a capo della Federdoc, “sono la punta dell’iceberg di una serie di contenziosi tra Usa ed Europa che devono ancora vedere la loro conclusione, per cui anche l’atteggiamento soft tenuto dall’Amministrazione americana va visto nell’ottica di una primavera con altri contenziosi, dall’affaire Boeing all’alluminio, in corso di giudizio della Wto. In quest’ottica, dobbiamo ricominciare a guardare agli Stati Uniti come ad una terra di missione, non basta produrre buoni vini né fermarsi a New York, dove c’è anzi troppa competizione, ed allora diventa più interessante e divertente andare a vendere a Kansas City, dove ancora pochi produttori italiani si affacciano, e molte denominazioni sono da scoprire. Non tutti, però, sono destinati a farcela: è un mercato - continua Ricci Curbastro - legato ai vini varietali, per cui cerca prima la tipologia e poi la denominazione, ma è un problema che educando il consumatore si può superare. Bisogna pensare avanti, perché il nostro punto di forza è la diversità, in un mercato ancorato ancora a 7-8 varietà, ma dove la curiosità dei consumatori continua a crescere, ed i vignaioli italiani dovranno farsi trovare pronti per raccontare le proprie storie”.

E, ovviamente, la propria storia, di cui è ricco il Nobile di Montepulciano, protagonista con le sue aziende nelle tre tappe dello U.S. Tour, e che in “Usa e Canada - come spiega il presidente del Consorzio del Nobile Andrea Rossi - ha due mete fondamentali per il proprio export, ma dove dobbiamo tornare ad essere incisivi ed a fare numeri importanti. Per questo, abbiamo deciso di investire di più, in comunicazione e promozione, ritenendo che la possibilità di inserire il termine “Toscana” in etichetta, dal 2020, possa essere un valore aggiunto per tutta la denominazione. Pensiamo che possa finalmente risolvere i problemi di identità tra la nostra denominazione ed il Montepulciano d’Abruzzo. Vogliamo aggredire il mercato Usa, perché è forse il più attento alle produzioni made in Tuscany, anche puntando sulla sostenibilità, andando a rosicchiare quote al vino francese, e sfruttando così la situazione che ci vede salvi dai dazi Usa”.

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