I cambiamenti climatici hanno conseguenze pratiche e drammatiche sulla vita di tutti i giorni, specie in agricoltura. L’Onu, con il lavoro dell’Ipcc - Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici, incrocia ogni anno i dati scientifici elaborati dagli enti dei diversi Paesi, ed il rapporto 2023 ci racconta come, per limitare l’aumento medio delle temperature ad 1,5 gradi nei prossimi anni, dobbiamo diminuire le emissioni totali di CO2 del 60% entro il 2030. Obiettivo utopico, che l’umanità non può permettersi, ma che mette tutti noi di fronte a conseguenze importanti: alcuni luoghi vulnerabili sono stati già stravolti dal cambiamento, e dovremo imparare a convivere quasi ovunque con la frequenza e l’intensità di eventi climatici come grandine e temporali. Non ci rimane che attrezzarci, affidandoci alla scienza, per far fronte a questo nuovo scenario, anche in viticoltura, come raccontano, al “Porto Cervo Wine & Food Festival” (voluto dall’Area Costa Smeralda gestita da Marriott International, fino al 14 maggio), dal talk show sui “Cambiamenti Climatici”, condotto da Alessandro Torcoli, direttore della storica rivista “Civiltà del Bere”, con, tra gli altri, Luca Mercenaro, docente di Viticoltura all’Università di Sassari, Andrea Pala, giovane enologo consulente delle realtà più importanti di Sardegna, e Davide Sordi, area manager Nord Ovest Italia & Sardegna Vivai Cooperativi Rauscedo.
“Soffre più il viticoltore della vite - dice il professore Luca Mercenaro - che è diffusa e coltivata ovunque. Il cambiamento climatico, in Sardegna come ovunque, mette il viticoltore di fronte a problematiche che non conosceva, ma le piante riescono a rispondere ancora bene. Lo scenario attuale, però, ci dice che in futuro anche le varietà autoctone avranno difficoltà a rispondere agli eventi. Anche in passato abbiamo avuto periodi caratterizzati da climi diversi: ai tempi degli Antichi Romani la viticoltura arrivava fino a Londra, e oggi la situazione è simile, ma con una velocità ben diversa nello spostamento della vite, perciò dobbiamo modificare le nostre tecniche colturali velocemente. Tutto parte, però, dall’uva, e quella buona è il risultato di tre grandezze: ambiente, genetica della pianta e lavoro dell’uomo, che fa incontrare questi due elementi con le proprie competenze. La sfida attuale è capire quali siano le tecniche più utili nell’immediato, con i vigneti che abbiamo impiantato tra 5 e 50 anni fa. Domani, dovremo invece capire, con nuove selezioni clonali e massali, come permettere alle piante di affrontare al meglio i nuovi scenari climatici”, continua il docente dell’Università di Sassari.
“L’Ipcc mette a punto anche gli scenari futuri, da quelli più ottimistici a quelli più pessimistici, in cui la temperatura aumenterà anche di 3-4 gradi. In questo senso, uno studio sul Torbato (varietà tipica della Sardegna, ndr), nel 2050 il germogliamento avverrebbe a metà febbraio, e la maturazione per fine luglio, quasi un mese prima di quanto succede oggi, con rischi evidenti legati alle gelate e non solo. Abbiamo bisogno di tecniche colturali per mitigare gli effetti di questi cambiamenti, serve un programma nazionale per costituire nuove varietà per poter avere materiale genetico nuovo da impiantare nei vigenti, in base a come andranno gli scenari climatici. Una risposta arriva già dalle viti più vecchie, che resistono meglio di quelle giovani, innanzitutto per motivi morfologici: calmiera naturalmente la produzione ed ha un apparato radicale più sviluppato, superando così meglio le estati siccitose. Inoltre, stocca gli zuccheri nel legno vecchio, e li manda nel grappolo, ecco perché le piante più longeve garantiscono una qualità migliore. Anche a livello genetico, nelle piante più vecchie certi geni si muovono prima, ad anticipare gli stress, e rallentando così la crescita, o diminuendo l’angolo della foglia. Avere un patrimonio vitivinicolo più longevo e maturo, specie oggi, con i consumi globali in calo, è di per sé una prima risposta ai cambiamenti climatici - conclude Luca Mercenaro - e lo stesso principio deve valere per i nuovi impianti, che non vanno forzati in termini produttivi. Il Climate Change sta riportando in auge varietà perdute, quelle che i nostri nonni avevano lasciato indietro perché non rispondevano al meglio alle condizioni del momento, ma che oggi ben si adatterebbero al panorama attuale”.
A proposito di patrimonio vitivinicolo, oltre alle piante, anche “il portainnesto oggi è uno strumento fondamentale, ma anche molto poco indagato”, spiega Davide Sordi (Vivai Rauscedo). “Ne abbiamo una settantina iscritti al registro nazionale ed utilizzabili, tutti costituiti all’inizio del Novecento: la ricerca è ferma da un secolo, e cinque soli portainnesti coprono l’80% del vigneto italiano, trovando però condizioni e terreni estremamente diversi. Oggi ci sono studi su come il microbioma possa incidere su come il sistema immunitario reagisce al rapporto tra marza e portainnesto, determinando nuove dinamiche sul prodotto finale. Ma il portainnesto deve rispondere anche a nuove esigenze: la siccità è la vera sfida, specie dove non si può usare l’irrigazione, con il rischio di perdere la pianta, non solo la produzione”.
Tra le innovazioni più rilevanti, “l’M, studiato con il professore Attilio Scienza, uno strumento nuovo, nato negli Anni Ottanta, quando si cercavano portainnesti universali, capaci di rispondere a tutte le esigenze. Da migliaia di incroci, ne sono stati selezionati quattro, che garantiscono migliore efficienza di gestione idrica, utilizzando il 30% in meno di acqua, ma anche riscontri importanti in termini di maturazione fenologica. Sono portainnesti con una visione improntata sul riscontro enologico”, dice ancora Davide Sordi.
Spostando l’attenzione sui trend in vigna, e, quindi, sul borsino delle uve, “veniamo da un triennio votato agli impianti di uva rossa: il Sud Italia ha spinto molto, piantando molte varietà internazionali, ma quest’anno si registra un blocco importante su questo fronte, complice il contesto internazionale. In Sardegna, il Vermentino è la varietà a bacca bianca più rappresentativa, e si continua a piantare in tutto il bacino del Tirreno, dalla Sicilia al Lazio alla Liguria. Un occhio va sempre tenuto sulle bollicine e le sue varietà d’elezione, con un grande ritorno di Pinot Nero e Chardonnay, a fare da contraltare alla Glera, perché il Metodo Classico, quindi Franciacorta, Trentodoc e Alta Langa guida una tendenza importante”, conclude il manager Vivai Cooperativi Rauscedo.
Dalla vigna alla cantina, “le problematiche da affrontare sono ben diverse, ma anche sulla parte tecnica e commerciale il cambiamento climatico ha effetti diretti ed importanti”, racconta l’enologo Andrea Pala. “Il mercato vuole vini più leggeri, ma il caldo ci spinge a produrre vini più alti in gradazione. Fondamentale, quindi, diventa la collaborazione con la parte agronomica: servono uve ottime, ma la cinetica fermentativa non è molto controllabile, anche se con le tecnologie di oggi si può ad esempio gestire la temperatura, accelerando le fermentazioni, oppure possiamo usare lieviti selezionati che usino più o meno zuccheri per produrre alcol. Così, però, si va ad incidere sulle caratteristiche organolettiche, cosa che non ci possiamo permettere, perché è su quello che poggia il nostro successo commerciale”.
Inoltre, “le uve stramature fanno perdere freschezza ed acidità, allontanandoci dalle richieste del mercato. L’aumento del Ph è nocivo per la qualità e la vita del vino, restituendo acidità troppo basse. Un’altra problematica è rappresentata dalla maturità fenolica, difficile da ottenere con concentrazioni di zuccheri troppo alte, come è successo nel 2022, con le piante in stress idrico e in stasi, con concentrazione di zuccheri legata solo alla polpa, con la pianta che ha preso l’acqua proprio dagli acini. Le sostanze aromatiche e coloranti sono nella buccia, e possiamo cercare di ottimizzare i tempi delle macerazioni, estraendo il massimo, attraverso la criomacerazione, o l’utilizzo di determinati enzimi che spaccano le cellule liberando sostanze aromatiche e coloranti”.
“Quasi sempre - continua Pala - l’enologo è visto come un chimico, ma l’uso della tecnologia è fondamentale. I lieviti indigeni, spesso, rischiano di restituire vini con residui zuccherini importanti, che sarebbero un problema enorme per il mercato, per questo è utile usare lieviti selezionati. La solforosa, invece, è un conservante, prodotto naturalmente, ma anche aggiunto, e presente in qualsiasi prodotto alimentare, e nel vino in misura estremamente inferiore rispetto, ad esempio, a quelli che troviamo nei salumi. La tecnologia, se non altera il prodotto, serve, in fin dei conti si parla di prodotti naturali.
Un altro effetto dei “cambiamenti climatici” è l’instabilità dei vini, che comporta un utilizzo energetico maggiore per riportarli alle giuste condizioni. E poi, ci sono gli aspetti aromatici, fondamentali: senza lo sbalzo termico tra giorno e notte, che, ad esempio, in Gallura, in Sardegna, raggiunge solitamente i 10-15 giorni, perdiamo anche la complessità aromatica”, conclude l’enologo Andrea Pala.
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