Una rassegna storica della cultura gastronomica in Italia dal tardo Medioevo ai giorni nostri, che si sofferma sugli aspetti linguistici caratterizzanti e in particolare lessicali della lingua del cibo, illustrando il canone dei testi classici dell’arte culinaria e rilevanti nella storia linguistica dell’italiano fino a oggi, ed arrivando alla divulgazione del cibo attraverso i mass media, dal cinema alla tv, dalla stampa periodica al web. È un invito a riflettere su come grazie alla cucina la lingua italiana si è diffusa in Italia e nel mondo, il volume “L’italiano del cibo”, scritto a quattro mani da Giovanna Frosini, professoressa di Storia della lingua italiana all’Università per Stranieri di Siena e coordinatrice del prin atliteg (Atlante della lingua e dei testi della cultura gastronomica italiana dall’età medievale all’Unità), e Sergio Lubello, professore ordinario di Storia della lingua italiana all’Università degli Studi di Salerno. Una diffusione di parole, piatti e ricette capillare, molto più che attraverso la cultura, grazie al linguaggio universale del piacere, raccontato, primi tra tutti, dai cuochi che hanno fatto fortuna all’estero e che tanti migranti hanno portato con sé nelle valigie dei ricordi.
E il bello è che questo avviene almeno fin dal Medioevo, quando i sapori viaggiavano nelle grandi e trafficate vie del commercio dell’epoca, e, più tardi, quando i più bravi gastronomi venivano chiamati nelle corti di mezza Europa, da Bartolomeo Scappi, cuoco di Papa Pio V (la cui “Opera di Bartolomeo Scappi, mastro dell’arte del cucinare, divisa in sei libri” del 1570, uno dei più grandi trattati di cucina del suo tempo, è raffigurata nella cover del volume di Frosini e Lubello, Carocci Editore, maggio 2023, pp. 112, prezzo di copertina 13 euro https://www.carocci.it/prodotto/litaliano-del-cibo) a Cristoforo di Messisbugo, cuoco alla corte Estense e dei Gonzaga. Fino a “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, il celebre manuale, pubblicato per la prima volta nel 1891 (e che oggi conta oltre 100 edizione in tutte le lingue del mondo, compreso, da ultimo, il cinese, e 1 milione di copie vendute) con il quale Pellegrino Artusi, “padre” della cucina italiana, esaltando il piacere del mangiar bene riuscì nell’impresa di unificare l’Italia in campi ben diversi da quelli in cui si spinsero Garibaldi, Cavour e Mazzini, con un italiano perfetto e comprensibile a tutti, e un dialogo costante con le donne italiane, custodi dell’arte culinaria nella Penisola, sue principali lettrici e allo stesso tempo coautrici. E che Alberto Capatti, tra i massimi storici della gastronomia (che, in una Lectio Magistralis nei 20 anni dalla fondazione dell’Università di Scienze Gastronomico di Pollenzo, ha esortato a riportare anche la politica “nell’alveo delle tematiche delle scienze gastronomiche”) definisce come “primo blog” di ricette italiane. L’Artusi è riuscito a creare attorno alla cucina “un vero e proprio valore sociale condiviso”, come sottolinea il fondatore Slow Food, Carlin Petrini (la cui convinzione, ampliando gli orizzonti, come ha ribadito, spesso, a WineNews, è che “il sistema e agricolo e alimentare debba e possa cambiare attraverso le scelte individuali, e anche il piacere”)
Un valore condiviso da italiani e non, a partire dal Belpaese, perché come spiega Massimo Montanari, tra i massimi storici dell’alimentazione al mondo, anche nelle nostre interviste, “attraverso il cibo si può parlare “leggermente” di cose importanti, soprattutto in un Paese come l’Italia, dove la cultura gastronomica, oggi tra le più importanti al mondo, non solo affonda le radici lontano nella storia, ma è frutto di secoli di contaminazioni, mutamenti, influenze, memorie e tecnologie mai cristallizzate o codificate una volta per tutte. Ben prima che l’Italia esista come entità politica, esiste una cultura italiana, riconoscibile nell’arte, nella letteratura, nella musica. E di questa cultura la cucina è parte essenziale”, come ha raccontato il professore a milioni di italiani in Tv, con “L’Italia a tavola. Storia di una cultura”, progetto in tre puntate di Rai Cultura, con i contributi degli antropologi Marino Niola ed Elisabetta Moro - con i quali WineNews si confronta spesso - e Franco La Cecla, lo storico Alberto De Bernardi, l’esperta delle pratiche di panificazione Laura Lazzaroni e la stessa studiosa della lingua Giovanna Frosini. E se “è così differente da Nord a Sud, a volte anche di Comune in Comune, la cucina italiana è però da sempre attraversata da alcune caratteristiche forti come l’inclusività - sottolinea Montanari - ovvero la capacità di accogliere prodotti nuovi. Penso al pomodoro e al peperone, prodotti americani che sono diventati caratteristici dei nostri piatti. La caratterizzazione locale dipende da più fattori, come la geografia e il clima. Ma anche dalla sovrapposizione di tante genti e culture che hanno di volta in volta interpretato il territorio a modo loro. Tutti questi elementi hanno fatto dell’Italia un luogo straordinario di biodiversità. Ma queste realtà locali interagiscono tra loro, non sono semplicemente accostate. È l’altro grande segreto della ricchezza della nostra cucina: il fatto che alto e basso hanno sempre dialogato, dalla cucina della corte del Rinascimento a quella borghese dell’Ottocento dell’Artusi, mescolandosi con la cultura popolare contadina. Oggi possiamo dire che la nostra forte identità culturale è costruita sulle differenze ed è un bel messaggio anche dal punto di vista civile”. Che vuol dire esser ben lontano dal considerare la tanto chiacchierata sovranità alimentare come autarchia, quanto, piuttosto, come una “complicità tra economia globale e realtà locali”.
Un messaggio che, in un futuro ormai prossimo, ci auguriamo, sarà alla base del riconoscimento della “cucina italiana tra sostenibilità e biodiversità culturale” a Patrimonio Unesco, e che questo possa spingere finalmente all’inserimento dell’educazione alimentare nelle scuole italiane. Nel presente, questo stesso messaggio può essere d’esempio al mondo del vino - come sostiene anche il professor Gianni Moriani, storico della cucina e del paesaggio agrario italiani, riportando in primo piano il ruolo del vino come “mediatore sociale” - per riuscire finalmente a parlare a tutti quanti.
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