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Gentleman / Italia Oggi

In Vino Veritas ... In attesa della 45° edizione di Vnitaly (Verona, 7 - 11 aprile), ecco cinque tendenze dell’enologia su cui riflettere e discutere. Dagli imprenditori vigneron alle zone elette, dai vitigni autoctoni alla multiregionalità. Senza trascurare il futuro dei rosé... I denti della crisi non hanno ancora smesso di mordere, ma il Vinitaly, che si svolge a Verona dal 7 all’11 aprile, dovrebbe segnare l’inizio della ripresa. Ma che direzione prenderà? Per capirlo è indispensabile individuare quali effetti ha provocato la recessione nel vino italiano. Forse non ha determinato quell’inversione di tendenza che s’era temuta, ma indubbiamente ha inferto una battuta d’arresto all’evoluzione che negli ultimi trent’anni ha fatto recuperare un ritardo di due secoli all’enologia della penisola. Soprattutto ne ha modificato gli obiettivi. Quali sono adesso le linee di tendenza? Individuarle non è difficile, ma solo il Vinitaly potrà dire qual è l’effettiva portata di ciascuna di esse.

I vigneron illuminati. Il vino che ha aperto le strade del mondo alle bottiglie made in Italy, il Sassicaia, fu realizzato da un gentiluomo piemontese che faceva tutt’altro mestiere: il marchese Mario Incisa della Rocchetta allevava cavalli che hanno fatto la storia dell’ippica, da Nearco a Ribot. Dopo di lui sono stati molti gli imprenditori industriali, i dirigenti, i professionisti che si sono dedicati alla produzione di nobili vini, gestendo (part-time) un’azienda agricola. Quanto deve il vino italiano a questi personaggi venuti da altre esperienze, che hanno portato nelle vigne capitali freschi, idee nuove ma soprattutto una mentalità imprenditoriale moderna? Per rendersene conto basta osservare la classifica dei Top 100 rossi pubblicata il Natale scorso da Gentleman: il Faro Palari è prodotto da un architetto, Salvatore Geraci; il Camartina è di un’azienda di Greve in Chianti, l’Agricola Quercia- bella, fondata da un manager siderurgico, Giuseppe Castiglioni, scomparso qualche anno fa; il Montevetrano è opera di una fotografa, Silvia Imparato; il Rocca di Frassinello, I Sodi di San Niccolò e il Baffonero sono prodotti dal giornalista-editore Paolo Panerai, Non tutti gli imprenditori-vigneron, naturalmente, hanno esercitato un’influenza altrettanto positiva: qualcuno di essi si era illuso che si trattasse di un business facile e redditizio e il mercato non ha tardato a contraddirlo, parecchi avevano esagerato con i prezzi, ma a neutralizzare la loro escalation hanno provveduto le difficoltà economiche dell’ultimo triennio. È tra questi personaggi che la recessione ha operato la selezione più feroce. Chi si mosso per autentica passione, viceversa, è riuscito a superare indenne i momenti difficili. È proprio in questo periodo burrascoso, anzi, che alcuni di essi si sono affermati. C’è riuscito Claudio Tipa, imprenditore nel settore dei sistemi di telecontrollo industriali, con la Tenuta Colle Massari, alle pendici dell’Amiata; ha bruciato il traguardo del successo Jarno Trulli, pilota di Formula uno, al volante del podere Castorani, nell’entroterra pescarese; ed è di un petroliere, Aldo Brachetti Peretti, patron dell’Api, il Pollenza, da una delle aziende vitivinicole più brillanti delle Marche. Di outsider come loro ce ne sono parecchi ed è da loro che si aspettano sorprese.

Le zone elette. A brillare nel firmamento enologico oggi non ci sono più soltanto Barolo e Barbaresco, Amarone e Brunello di Montalcino, Chianti Classico e Supertuscan: ogni giorno si mettono in luce, con vini eccezionali, nuovi territori che fino a ieri non erano nemmeno presi in considerazione perché non si pensava che avessero le potenzialità per una produzione di grande prestigio. La nuova frontiera della Toscana vinicola si è rivelata, per esempio, la Maremma: trascinati dal successo del Sassicaia e dell’Ornellaia, ormai tutta la costa e l’entroterra tirrenico, da Bolgheri a Orbetello, sono diventati zona eletta e vi si sono insediati molti grandi nomi del vino. A Castagneto Carducci, Piero Antinori ha realizzato nella Tenuta Guado al Tasso un polo della sua attività, e la stessa operazione ha fatto Angelo Gaja con Ca’ Marcanda; a Suvereto è giunto dalla Franciacorta Vittorio Moretti, dalla Valpolicella è arrivato a Cinigiano il conte Pieralvise Serègo Alighieri, mentre nella zona del Montecucco si è insediata Santa Margherita; a Roccastrada Gianni Zonin ha creato Rocca di Montemassi; a Grosseto sono presenti sia i Mazzei del Castello di Fonterutoli, con la Tenuta Belguardo, sia i Cecchi di Castellina in Chianti con l’azienda Val delle Rose; a Manciano, il principe Duccio Corsini (fattoria Le Corti di San Casciano) ha la Tenuta Marsiliana; a Magliano, in Toscana, Federico Carletti (Poliziano, a Montepulciano) possiede l’azienda Lohsa, mentre a Scansano, dove la famiglia Cinelli Colombini ha acquistato la Tenuta Vivaio dei Barbi e Maria Luisa Sparaco della Fazi Battaglia il Greto delle Fate, Jacopo Biondi Santi produce Morellino Riserva e Supertuscan nella tenuta dello storico Castello di Montepo.

Le multiregionali. Le nuove zone elette attirano spesso anche i produttori delle altre regioni. Ecco perché in questi anni si è affermato un nuovo modello di struttura produttiva: l’azienda multiregionale che, invece di ricavare l’intera gamma dei suoi vini da un solo territorio, li ottiene ciascuno dalla zona più vocata per quella tipologia, anche se molto distante dalla casa madre. Questo schema, realizzato generalmente dai produttori acquisendo vigneti in altre regioni, ha la sua più suggestiva espressione nell’arcipelago Muratori, che invece è nato così per scelta deliberata. È il gruppo che i fratelli Muratori, imprenditori tessili del Bresciano, hanno creato nel momento in cui hanno deciso di produrre anche vino, e hanno scelto di farne quattro tipi in quattro aree diverse: bollicine in Franciacorta, grandi rossi in Maremma, vini bianchi di grande struttura nel Sannio, vini da dessert a Ischia. La formula multiregionale, che inizialmente caratterizzava unicamente le aziende di maggiori dimensioni, come Antinori e Zonin, Santa Margherita e Giv (Gruppo italiano vini), negli ultimi anni è stata adottata, su scala ridotta, anche da imprese più piccole, che si sono generalmente limitate a iniziative biregionali (Friuli e Toscana, per esempio), in modo da produrre rossi e bianchi nei territori più adatti. La terra che in tempi più recenti ha attirato però il maggior numero di produttori da altre regioni è stata la Sicilia. In un primo tempo ad attirarli era la possibilità di ottenere straordinari risultati con Cabernet Sauvignon, Merlot e Syrah, più tardi il boom del Nero d’Avola e dell’Inzolia. Perché, nel frattempo, si era manifestata un’altra linea di tendenza.

I vitigni autoctoni. È vero che ad aprir la pista ai vini italiani sono stati 30 anni fa Cabernet, Merlot, Chardonnay e Sauvignon utilizzati dai Super Tuscan, però adesso l’interesse dei mercati esteri si è appuntato anche sui vini tratti da vitigni autoctoni, che oltre a rompere la monotonia di quelli realizzati con le varietà internazionali, un po’ troppo uguali l’uno all’altro, raccontano la suggestione dei territori in cui sono nati. Ecco perché stanno tornando alla ribalta le varietà indigene prima trascurate, dalla Corvina del Veneto al Pecorino delle Marche e dell’Abruzzo, dal Grechetto umbro al Cannonau sardo. Però le uve autoctone che sembrano esercitare la maggior suggestione sono quelle della Sicilia. C’è stato, è vero, un attimo d’incertezza dopo l’entusiasmo forse persino eccessivo per il Nero d’Avola, ma questo non ha impedito che si scatenasse subito dopo la corsa alle varietà tipiche dell’Etna, di personalità davvero vulcanica: il Nerello Cappuccio, il Nerello Mascalese, la bianca Carricante. Sono almeno 11 le aziende multiregionali che hanno un polo della loro produzione in Sicilia, e la maggioranza ha il suo vigneto alle pendici del vulcano.

Il colore del futuro. Domanda legittima: se il Vinitaly le confermerà, queste linee di tendenze quali prospettive garantiscono? Garanzie non ne offre nessuno, però può essere di buon auspicio il fatto che una linea di tendenza affermatasi in questi ultimi tempi sia quella dei vini rosé. Poiché l’Italia è il paese che ha le uve più adatte per questa tipologia, è legittimo vedere il futuro in rosa.

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