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Il Gusto

Nelle contrade care a Omero il mito prende vita nel calice … A fine Ottocento il vigneto catanese trainava l’economia, poi è stato abbandonato nel Novecento Ma negli anni Duemila è risorto grazie a pionieri come de Grazia e Franchetti e oggi attira investitori da tutto il mondo. Il segreto del successo? Sabbie fini come cipria, sassi, terroir recenti, viti vecchie: ogni angolo esprime un’unicità che si riflette nei vini, che spiccano per eleganza e purezza… Il mondo del vino italiano ha fatto passi da gigante da quando, negli anni Novanta, abbiamo iniziato a frequentarlo. Le tecniche in vigna e in cantina si sono affinate, le nuove Doc, trainate dalla riscoperta di innumerevoli varietà, hanno movimentato il panorama enologico. Ma la geografia vitivinicola è rimasta pressoché immutata, fatta eccezione per il vulcano attivo più alto in Europa, che brilla furente alle spalle di Catania. Secondo Omero, già i Ciclopi producevano “un vino di ottimi grappoli” alle falde dell’Etna. E ciclopiche apparivano, alla fine dell'Ottocento, le dimensioni del vigneto catanese, 90.000 ettari, l’odierna superficie vitata in Sicilia. Il commercio di vino etneo trainava l’economia, tanto da giustificare la costruzione di una ferrovia, la Circumetnea, che correva tutt’intorno al vulcano e faceva capolinea al porto di Ripostu (in dialetto, “cantina”), dove le navi attendevano il carico, pronte a salpare alla volta di Genova e Marsiglia. Poi il drastico abbandono dei vigneti, imputabile a politiche agrarie discutibili. Mario Soldati arriva sull’Etna nel 1968, nel suo viaggio alla ricerca dei vini genuini, e trova un ambiente allo stesso tempo splendido e decadente. La descrizione che fa del suo cicerone, il barone Nicolosi di Villagrande, “un trampoliere in mezzo a una muta di cani usciti da un vaso greco”, rende bene l’idea di la fantasia. La vocazione enologica è ambidestra, tra vini rossi e bianchi non c'è gara, vincono entrambi. Balza alla mente un solo altro terroir europeo con caratteristiche analoghe, per cui ha ragione de Grazia, quando afferma che “l’Etna è la Borgogna del Mediterraneo”. I rossi sono prodotti soprattutto sul versante nord, tra i comuni di Randazzo e Castiglione di Sicilia, dove abbiamo visitato le aziende di Russo e Graci. Il vitigno nerello mascalese (min. 80%) dona gioielli di rara eleganza e mineralità, levigati nel gusto, scolpiti nel tannino e scevri di vistosità alcoliche. In una parola, ammalianti. Poi la fascia vitata, che sale sino a quota 1.000 metri e necessita di un lavoro certosino di terrazzamento, gira intorno al vulcano, come una sciarpa buttata intorno al collo, e si entra, ad est, nella patria dei bianchi, a base di uva carricante. Lo stupore, se possibile, aumenta per questi nettari elettrici e umorali, tagliati nella luce e nel sale dello Ionio, che si scorge all’orizzonte, e nei profumi vivi della terra di Milo, dov’è ubicata l’azienda di Salvo Foti, altra tappa del nostro tour. Distinguere i vini dell’Etna soltanto in base al versante di provenienza è comunque riduttivo un mondo giunto, a sua volta, al capolinea. Il poema del vino etneo, tuttavia, aveva in serbo per gli appassionati un nuovo capitolo. Nei primi anni Duemila, sbarcano sul vulcano i “pionieri”, attratti dalla magia di una terra estrema e mitologica. Tra questi, l’italoamericano Marc de Grazia, il belga Frank Cornelissen, il romano, cittadino del mondo, Andrea Franchetti. Insieme a pochi “autoctoni”, tra cui Giuseppe Benanti e Girolamo Russo, collocano l’Etna sulla mappa vitivinicola. L’omonima Doc, approvata nel '68, a lungo rimasta al palo, fa così capolino su guide e manuali. La mancanza di documenti, a meno di non voler considerare l'Odissea, spiana la via alla sperimentazione tecnica, che, da subito, ammanta di effervescenza il nuovo terroir. Nuovo, sì, perché, se è vero che l’Etna e il suo vino sono antichi quanto i mostri e gli eroi, la presa di coscienza delle loro potenzialità è freschissima, così come la consapevolezza dei viticoltori di far parte di una comunità. Né è questo il solo paradigma che il distretto etneo ribalta. Una cantina con 20 anni di attività qui è ritenuta “storica”, in Toscana o in Veneto sarebbe una start-up. Nel nostro recente tour, abbiamo notato che le cantine etnee pullulano, del resto la zona stuzzica Ogni appezzamento vitato è irripetibile, generato dal vulcano scatenato, un infaticabile demolitore e, nel contempo, cesellatore di terroir, gran lanciatore di ceneri e lapilli, camaleonte di fuoco e lava. Le sottozone sono chiamate “contrade”, ma il paragone, spontaneo, con i “cru” di Borgogna mal si addice. Sull’Etna, a giocare un ruolo di primaria importanza non è tanto lo spazio, quanto il “tempo”, ossia l’età dell’eruzione all'origine dei terreni. Alcune contrade sono recenti, altre antichissime, le une si compongono di sabbia fine come la cipria, le altre contano più sassi che sulla luna. Le contrade ammontano oggi a 142, per oltre sessanta tipologie di suolo! Ecco perché ogni vino etneo è drammaticamente unico, diverso da ogni altro. Ed ecco perché il vulcano continua a richiamare viticoltori e investitori, folgorati dalle sue intriganti possibilità, sulla scia di Ulisse e dei pionieri. Nella stagione enologica attuale, ossessionata dalla qualità più che dai numeri, la campagna sospesa alle pendici dell’Etna non tornerà di certo ai 90.000 ettari vitati di inizio Novecento, sta di fatto che a noi è parso di sentire il fischio del treno, che corre di nuovo veloce...

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