Dalle pagine della sezione online dedicate al “Life style”, l’Ansa racconta il “melting pot” e l’integrazione riuscita a Montalcino. Alessandra Magliaro, in un articolo del 24 aprile (www.ansa.it/lifestyle/notizie/passioni/food_wine/2014/04/23/montalcino-52-etnie-allombra-del-brunello_46553410-11c0-4af9-88bd-84500deb6649.html), fa il punto, e racconta la storia, di come la città del Brunello, secondo i numeri dell’inchiesta “Versa il melting pot nel bicchiere”, lanciata da WineNews, uno dei siti più cliccati dagli amanti del buon bere, promossa in occasione di Vinitaly (www.winenews.it/news/34645/inchiesta-winenews-pi-alta-della-media-nazionale-10-con-punte-del-14-sul-74-italiano-la-presenza-degli-stranieri-nei-comuni-pi-importanti-del-vino-italiano-che-prospera-anche-grazie-al-loro-lavoro), conti ben il 14% di immigrati sulla popolazione totale. La Magliaro definisce le 52 etnie intorno ad un territorio unico come “una storia affascinante” che rende “Montalcino e i suoi vini esportati in tutto il mondo, 15 km diagonali, il vigneto più grande d’Europa, 20.000 ettari in provincia di Siena. Un terreno speciale - nel 2007 sotto il castello di Montalcino fu trovato persino un fossile di balena - che attira tanti stranieri, ci abitano svizzeri tedeschi, americani, tanti danesi, gli inglesi latitano preferendo il vicino Chiantishire”.
Ma Montalcino si conferma un territorio sempre più global: i residenti provengono da tante diverse nazionalità e, negli anni, forse grazie alla diffusione della cultura della legalità, come riportano le cronache locali, non si sono verificati episodi di intolleranza. Montalcino è “melting pot”, come più volte ha scritto anche la Montalcinonews anche perché, qui, gli immigrati conservano usanze, lingua e religione originarie, sentendosi, però, cittadini di Montalcino a tutti gli effetti. E, nella classifica delle nazionalità, al primo posto, c’è quella albanese (144), al secondo quella rumena (112) e, al terzo, tunisina (68). E Montalcino è anche il territorio di arrivo, non solo per il lavoro nei campi, ma anche per grandi investitori e per i lavoratori del terziario avanzato. La storia la racconta Rodolfo Maralli, un romano da tanti anni direttore commerciale di Castello Banfi (www.castellobanfi.com), acquistata negli anni ’70 dagli americani, di origine italiana, John e Harry Mariani: “30 anni fa qui era una zona agricola depressa, è incredibile dirlo oggi che da questa cantina esportiamo milioni di bottiglie in Usa, Inghilterra, Russia, Giappone, Corea, Germania, Svizzera per citare i mercati principali. Del resto - racconta Maralli - a fine anni ’70 c’erano 1.000 etichette di vini in Italia, oggi 220.000, sembra strano ma sulla produzione di qualità siamo giovani anche se il vino è parte da sempre della nostra cultura’’.
La storia di questa azienda, tra i maggiori player italiani, nasce in America dai Mariani che di mestiere importavano vini dall’Italia: “si inventarono un Lambrusco per gli yankee, frizzante quasi come una Coca Cola e due gradi sotto la produzione locale, per il gusto Usa fu perfetto, arrivarono - racconta Maralli - a venderne 170 milioni di bottiglie l’anno. Un’escalation bloccata bruscamente a metà anni ’80: lo scandalo del metanolo, l’adulterazione del vino da tavola, che è stato come uno tsunami. Un disastro ma anche un’occasione di rinascita. I Mariani decidono di provarci e seriamente: comprano questo territorio, 100% uva sangiovese e investono nella ricerca, dando vita ad un celebre Brunello di Montalcino secondo i dettami del Consorzio”.
dagiata tra i fiumi Orcia e Ombrone Banfi, con 3.000 ettari di proprietà di cui oltre 800 dedicati a vigneti specializzati, raccoglie intorno un mondo di cultura vitivinicola cui ha aggiunto un plus di innovativa e moderna ricerca e la più grande balena fossile rinvenuta in Italia. Da qualche anno, poi, ha brevettato, dopo studi universitari, Horizon, un progetto che migliora ogni passaggio del processo produttivo: il cuore sono i 24 tini di fermentazione in legno e acciaio”.
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