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Italia Oggi

Aree rurali, il primato è a rischio ... Pil pro capite sopra la media, ma la strategia è frammentata... La foto scattata dal rapporto Ocse: l’Italia deve guardare oltre l’agricoltura in senso stretto... Al top per reddito pro capite nelle aree prevalentemente rurali, secondo l’Ocse, l’organizzazione mondiale per lo sviluppo e la cooperazione economica, l’Italia rischia di non mantenere il primato, trascurando l’importanza di sostenere economicamente lo sviluppo sociale e infrastrutturale che ruota attorno all’agricoltura. Stando al rapporto che l’Ocse ha pubblicato in questi giorni sulle performance delle aree rurali del nostro paese, rispetto a un quadro decisamente positivo, emergono alcune ombre. I numeri dell’Italia rurale potrebbero dipendere dal fatto che il paese è densamente popolato e le aree sono poco estese (l’Italia è fra i paesi meno rurali dell’Ocse), ma ben collegate con le città medio-piccole. In questo senso, la contiguità con le aree urbane e la correlazione positiva tra il numero di addetti nei settori manifatturiero e terziario, che rappresentano un indice di riferimento della diversificazione economica e del livello del pil pro-capite, moltiplicano il fattore occupazionale, riducendo il tassodi disoccupazione, che, stando all’Ocse, per le province di Belluno e di Aosta non supera il 5%, mentre nella provincia di Siena, è al disotto del 3%. A questo vanno aggiunti altri aspetti importanti come la presenza di un’industria agroalimentare fiorente grazie anche a un consistente numero di prodotti di qualità certificati a livello europeo (quasi 200 denominazioni d’origine) e a un turismo enogastronomico in trend ascendente (circa 17 mila aziende agrituristiche). Ma. come detto, vi sono anche alcune questioni da affrontare. In primo luogo, i divari territoriali, che portano a una notevole diversificazione nello sviluppo delle aree interessate. Le attività primarie altamente specializzate e maggiormente remunerative sono quelle situate nelle zone pianeggianti del Nord Italia, dove si concentra il 22% della forza lavoro rurale. A scalare, seguono quelle collinari e montagnose che occupano circa il 32% della superficie agricola nazionale, in crisi cronica da un decennio. Infine, le aree delle regioni ricomprese nell’obiettivo convergenza, ma anche alcune zone montane e collinari, dove il deficit maggiore è quello della carenza o assenza di collegamenti e servizi. Poi, la strategia politica ed economica italiana, che, malgrado operi attraverso due macro strumenti come il Piano strategico nazionale (Psn) e il Quadro strategico nazionale (Qsn) soffre, inevitabilmente, del frazionamento decisionale imposto dall’ultima (determinante) parola lasciata alle regioni. Benché il Psn coordini i Piani di sviluppo rurale e il Qsn i Programmi operativi regionali e i programmi finanziati dal Fas, l’obiettivo di entrambi, di arrivare a una dinamica istituzionale integrata con forti relazioni istituzionali orizzontali a livello centrale, cozza con i particolarismi e le peculiarità regionali. La distribuzione delle risorse economiche da parte degli enti territoriali premia, infatti, principalmente (quando non esclusivamente) l’agricoltura in senso stretto. Degli 8.292 miliardi di euro stanziati per lo sviluppo rurale in Italia, nemmeno un terzo andrà a misure economiche e sociali di ampio respiro, vale a dire oltre l’agricoltura e la silvicoltura. Il che significa poco più di quanto dovuto, dato che tutti questi programmi sono tenuti (per ottenere l’ok sulle spese dal Fears) a impegnare un minimo del 10% delle risorse Ue per supportare la diversificazione dell’economia rurale e il miglioramento della qualità della vita nelle aree rurali. A cui va aggiunto il fatto che circa il 15% dei fondi a disposizione delle regioni sono devoluti alle politiche rurali. Il risultato è nei dati economici del dettaglio della spesa pro capite nel settore primario per la programmazione 2007/2013. Guardiamo gli estremi. L’Emilia-Romagna riceverà 1.738 euro all’anno dal budget Psr dell’Ue, mentre la Calabria conterà su 1.821 euro l’anno. La variazione dell’intensità della spesa pro capite è tra i 1.800 e i 3.900 euro all’anno, per le regioni meridionali, mentre, per il Centronord, oscilla tra i 1.400 e i 10 mila euro.

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