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Italia Oggi

Quei balzelli ammazza-export ... Viaggio tra i dazi e le tasse che rendono difficoltoso affrontare i mercati esteri... Una bottiglia da 6 euro, in India arriva a costarne 54... Il mercato è globale, ma non per tutti. I piccoli produttori italiani di vino lo sanno bene. I costi sono alti e spesso ci si scontra con dazi e tasse che rendono difficoltoso affrontare i mercati esteri. Il caso emblematico è l’India, Paese dalle grandi potenzialità, ma frenato da dazi elevatissimi. Una bottiglia che parte dall’Italia a sei euro, arriva a costare sugli scaffali di Bombay (Mumbai) oltre 54 euro. “Il mercato indiano è fortemente protetto dai dazi”, spiega Antonello Ciambriello, coordinatore per Fedagri delle attività internazionali del consorzio Opera, “in particolare un sistema molto forte è presente nelle regioni del Maharashtra, Goa e Bangalore, per difendere le nascenti produzioni locali, dove ci sono 50 mila ettari destinati a vigneti per una produzione di 550 mila casse”. L’Italia è il terzo esportatore di vini in India, mercato con un alto tasso di crescita per i nostri vini dopo Cina e Russia, e la presenza italiana è prevalentemente rappresentata da tre cantine di Fedagri Confcooperative, Cantina di Soave, Agricoltori del Chianti Geografico e Cantine Mezzacorona. Ma il problema sono i dazi. “Una bottiglia che parte dall’Italia a 6 euro franco cantina”, continua Ciambriello, “arriva a costare in India 54,61 euro. Conti alla mano si devono considerare il 150% di dazio doganale e il 200% di accise cui si aggiunge un 9% per scarico e sdoganamento e un 29% per portare un carico in un deposito. A questo punto c’è un 12,5% che si prende l’importatore, il 12% del grossista e il ricarico del dettagliante, 15%. Alla fine, compresa la tassa di vendita, si arriva a un valore finale che è quasi 10 volte quello di partenza”. Che quello indiano sia un mercato interessante, ma difficile lo conferma Bruno Trentini, direttore generale della Cantina Soave. “Certo i dazi servono proprio per non incentivare le importazioni e favorire le produzioni domestiche. I problemi sono anche legati al fatto che in ogni singolo Stato dell’India deve essere, di anno in anno, registrata ogni etichetta come fosse un marchio. Per ogni prodotto e per ogni Stato occorrono almeno 500 euro di costi di avvio e per una piccola realtà non sono costi da poco. Noi siamo presenti da tre anni e guardiamo al mercato indiano con interesse e continuiamo a investire”. E se l’India è il caso limite, una delle situazioni più favorevoli si ha con gli Stati Uniti. Anche se qui non sono certo rose e fiori per i “piccoli”. “Una bottiglia di Brunello che parte da Montalcino arriva dal rivenditore Usa a 45 euro. È uno dei mercati più seri”, sostiene Stefano Cinelli Colombini, titolare della fattoria dei Barbi a Montalcino che per l’export negli Usa ha costituito una propria società, la Wine Project Inc, e recentemente ha stretto l’accordo con Pasternak Wines, uno dei principali distributori di vino negli States. “I costi variano in base alla gradazione e all’importanza del vino e il trasporto incide per pochi centesimi a bottiglia. Mediamente ci sono il 30% di costi per l’importatore, si arriva al 40% per i vini pregiati, il 25% per lo sdoganamento e 12 dollari a cassa di dazi, così si fanno casse da 12 bottiglie per fare conto pari. Il distributore ha un ricarico del 25% e quindi si arriva a un prezzo della bottiglia di 45 euro tutto compreso. Ovviamente se si compra al ristorante si ha una ulteriore maggiorazione del 50%. Ma diciamo, che tutto sommato la situazione è simile all’Italia”. Se dunque, come dice lo stesso Cinelli Colombini, gli States sono “uno dei paesi più seri”, i problemi maggiori si hanno “in Brasile dove occorre accreditare ogni singola bottiglia e dove la normativa è molto ristretta. E poi ci sono i problemi in Canada dove lo Stato detiene il monopolio e il vino rappresenta la seconda voce dopo il petrolio. È un retaggio dei tempi del proibizionismo”. “Diciamo che per le esportazioni ci sono pratiche molto divesificate, non c’è omogeneità, chiarezza, ci sono pratiche laboriose e incomprensioni per la lingua. Una piccola azienda difficilmente riesce a esportare in mercati complessi”. Le esportazioni italiane che incidono per il 35% della produzione, nei primi nove mesi del 2009 hanno segnato 14 milioni di ettolitri (+9% sul 2008), ma hanno perso in valore, -7%, scendendo a 2,4 miliardi di euro. Quello che occorre, secondo Denis Pantini di Nomisma, è la mancanza di una vera mentalità imprenditoriale dei produttori italiani. “In Cile o in Australia la viticoltura è una pratica industriale realizzata su estensioni di diverse centinaia di ettari e l’esportazione è la scelta prioritaria delle imprese”, sostiene Pantini. “Mentre le imprese italiane vendono per produrre, quelle dell’Emisfero Sud producono per vendere”.

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