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Cresce l’export di vino australiano e sfida il vecchio mondo ... L’Australia è più di ogni altro paese produttore di vino l’embleama dell’internazionalizzazione. Nel 2009 ha esportato circa 700 milioni di litri contro i 300 milioni consumati dagli stessi australiani. Nonostante la crisi, ha aumentano le vendite all’estero e soprattutto inizia ad avere una buona quota di mercato nel vino asiatico, area importante e ben presidiata da efficaci politiche di marketing. È un produttore del nuovo mondo molto aggressivo e industrialmente attrezzato, vantando una industria molto meno frammentata negli assetti proprietari. Per avere un’idea di quanto sia cresciuta la dimensione internazionale del business vinicolo australiano basta pensare che nel 1999 il 58% della produzione annua complessiva veniva consumato all’interno mentre lo scorso anno la percentuale è scesa al 37%. Sono invece cresciuti tutti i mercati esteri: il Regno Unito che oggi vale il 22% delle vendite australiane, gli Usa con il 20% (il valore era del 7% nel 1999), la Cina che oggi pesa per il 3% e che dieci anni fa non era significativa. L’Australia di oggi nel vino rappresenta un’economia export-led, orientata cioè a produrre soprattutto per i consumatori internazionali. È quanto hanno fatto i giapponesi nell’auto nel passato oppure coreani e cinesi più recentemente. Puntare sulle esportazioni significa fare politiche molte ben sostenute da un valido marketing mix che aiuta a far crescere i volumi e guadagnare quote di mercato. Il prezzo è un fattore non marginale del successo. Così non deve sorprendere se l’85% circa del vino australiano è venduto ad un prezzo medio inferiore a 4,99 dollari americani per bottiglia e se la quota del vino commercializzato a un prezzo medio inferiore ai 2,50 dollari alla bottiglia è cresciuto al 35% del totale dal 22 del 1999. Soltanto il 2% dei vini australiani spunta un prezzo medio superiore ai 10 dollari. Gli australiani esportano molto perché hanno saputo produrre dei vini ben posizionabili sugli scaffali della grande distribuzione e nelle teste dei consumatori dei beni di consumo ripetuti. Invece di puntare sul terroir e sulla segmentazione della denominazione di origine hanno preferito guadagnare quote di mercato facendo leva sul posizionamento di un prodotto “industriale”. Gli australiani sono in qualche modo i rappresentanti più emblematici del vino prodotto industriale o del vino bene di consumo di massa. Comprare vino o birra, in fin dei conti, non è un qualcosa di così diverso per un consumatore britannico, cinese o russo. È una scelta di acquisto con molti aspetti di similarità e quindi gestibile in termini di strategia di marketing in maniera non dissimile. Questo hanno fatto gli australiani e i numeri delle vendite gli hanno dato ragione, quelli del rendimento del capitale investito, invece, un po’ meno. Perché vendere a prezzi molto aggressivi significa rinunciare ai margini di guadagno e quindi ridurre la profittabilità del business. Nell’ultimo decennio il marketing australiano è stato molto orientato a guadagnare quote di mercato nei paesi target dove hanno saputo far vedere i sorci verdi ai tradizionali produttori del vecchio mondo, francesi e italiani tra gli altri. In questo decennio potrebbero decidere di cambiare strategia e di salire nella filiera dell’offerta puntando ad intercettare i consumatori più affluenti del mercato internazionale del vino. Ora hanno diversi vantaggi in più rispetto a un decennio fa: il marchio Australia è noto e in qualche modo apprezzato dai consumatori, la presenza anche nelle catene di ristorazione è stata conseguita e le aziende vinicole dispongono di enologi e strutture in grado di far fare un salto di qualità al vino australe. Soprattutto nell’emergente mercato del vino asiatico i produttori australiani sono da tenere sotto stretta osservazione.

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