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Italia Oggi

… Vigna felix forse non tornerà più … Fa bene, molto bene, il governatore della banca d’Italia, Mario Draghi, a ricordare che la recente recessione ha fatto tornare indietro di ben nove anni le lancette dell’economia italiana tanto è stata la ricchezza distrutta. E fa sempre molto bene il governatore a sottolineare il fatto che, una volta terminata la crisi, la marcia dell’economia italiana è ripresa senza alcuna accelerazione a differenza, ad esempio, della Germania. II pil italiano è sceso quanto quello tedesco nel 2009 ma ha ripreso a crescere all’1% nel 2010, come da troppi anni accade. Questo valore, cioè 1’1%, potrebbe essere una sorta di tasso normale di crescita del sistema Italia data la concorrenza internazionale e le condizioni domestiche. Se così fosse sarebbe davvero dura gestire la dimensione del debito pubblico negli anni a venire. E se così fosse per la gran parte dei comparti produttivi storici italiani nascerebbero concerete necessità di riposizionamento della offerta. Una necessità che non risparmierebbe neanche il comparto vitivinicolo. Meno consumi interni o consumi interni in crescita più lenta in termini relativi del resto del mondo e l’obbligo di andare all’estero a recuperare fatturato, margini e quote di mercato. È dunque assai probabile che nei prossimi anni, cinque non molti di più, assisteremo ad una radicale trasformazione della struttura proprietaria e dimensionale dell’industria vinicola italiana. Molti produttori “novecenteschi”, pensati e strutturati per servire un opulento mercato di consumo domestico, saranno costretti a uscire di scena in quanto incapaci di far fronte ai fabbisogni finanziari a fronte di una redditività ridotta dell’attività vinicola. II numero delle aziende vinicole destinate ad uscire di scena, come marchi o etichette autonome, è davvero da doppia cifra abbondante. In qualche modo la doppia retorica del “piccolo è bello” e del “terroir del vitigno autoctono” uscirà profondamente ridimensionata nel post recessione. Essere piccoli nell’economia globale contemporanea è possibile soltanto a condizione che l’impresa di dimensioni contenute vanti una effettiva specializzazione di nicchia. Una nicchia oggettivamente difendibile, non una costruzione intellettuale legata ad un vitigno che nessuno conosce oltre la regione di coltivazione e che è costosissimo promuovere nel mondo. Una offerta focus e distintiva per costruire un vantaggio competitivo enologico basata su una produzione modesta di uve non diffuse a livello di consumi, è più una utopia alto borghese che una effettiva strategia di business praticabile nel mercato vinicolo odierno. Nel mercato globale contano sempre di più gli standard, cioè i prodotti noti ed immediatamente riconosciuti e riconoscibili dai consumatori. Accade nella tecnologia ed anche negli altri comparti merceologici. Si producono degli effetti rete tra i consumatori che preferiscono consumare prodotti già conosciuti. Per questa ragione vendere vitigni autoctoni non affermati come standard si farà sempre più difficile nel futuro. Il consumatore globale ha in testa gli standard internazionali del vino come il Merlot o lo Chardonnay, non il Pecorino o l’Aglianico. Per affermare il loro standard regionale a livello mondiale le imprese vinicole italiane devono crescere dimensionalmente per poter investire nel promuovere il proprio standard, cioè il vitigno autoctono che producono. Ma per far questo servono capitali, ecco spiegato perché il futuro prossimo del vino italiano è destinato ad essere rivoluzionato.

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