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Italia Oggi

Il vino italiano in Cina: +2.000% ... Tante possibilità di Export (cresciuto in 10 anni del 58%) per l’industria agroalimentare... Come sono cambiate spese e abitudini dei consumatori... Meno acquisti ma più selezionati, con l’innamoramento del made in Italy alimentare. Aumenta l’export ma vi sono mercati, dagli Stati Uniti alla Cina, che potrebbero essere ancora terreni di conquista. L’identikit dello stato attuale del food italiano lo disegna per ItaliaOggi, Denis Pantini, direttore della sezione Agroalimentare e Wine Monitor di Nomisma, la società di analisi economica fondata da Romano Prodi “La crisi”, dice, “ha lasciato il segno. Occorreranno molti anni prima di ritornare ai livelli di consumo del 2007: si pensi infatti che da quell’anno il livello dei consumi alimentari in Italia è sceso (a valori costanti e quindi come a dire a quantità) di oltre il 10%. Si passa dal -15,6% del pesce al -13,1% del vino, al -12,2% di pasta e cereali al -11,3% della frutta, al -10,9% della carne. Inoltre con la crisi sono cambiati anche i paradigmi che finora avevano guidato gli acquisti: oggi si cerca la qualità al giusto prezzo, si continua a tenere un occhio al fatto che sia prodotto in Italia ma soprattutto si cercano cibi in grado di generare “benessere”: da qui i prodotti funzionali, arricchiti, free from (cioè senza sostanze potenzialmente intolleranti o che possono provocare allergie) e anche biologici, dove oltre alla propria salute si guarda a quella dell’ambiente (pur a fronte dei paradossi emersi con la questione dei sacchetti di plastica biodegradabile)”.

Domanda. Cosa emerge dalle vostre ricerche sui consumatori?

Risposta. Che il 75% dei consumatori predilige prodotti con ingredienti italiani, il 47% acquista anche alimenti biologici, il 46% dà la priorità a prodotti facili da preparare e il 26% vuole ingredienti tutti vegetali.

D. Nel caso del biologico e del salutismo si tratta di una tendenza provvisoria oppure questi comportamenti diventeranno stabili e duraturi?

R. Se un tempo potevano essere definiti una moda, oggi i consumi di biologico fanno parte di un sistema di preferenze che tende a rafforzarsi nel percepito del consumatore italiano ma anche europeo e nordamericano in particolare.

D. Quindi c’è una certa omologazione nei comportamenti dei consumatori dei Paesi occidentali.

R. Per certi versi sì ma i consumatori italiani pongono maggiore attenzione, rispetto alla media europea, alla ricerca di prodotti di origine territoriale e di alta qualità.

D. Strettamente connessa alla ricerca territoriale e di qualità è la faccenda delle etichette, che non sempre sono trasparenti come sarebbe auspicabile.

R. Il tema dell’etichettatura di origine è un aspetto complesso e attualmente in discussione a livello europeo. Al di là del legittimo diritto del consumatore ad essere informato, l’indicazione dell’origine in etichetta può rappresentare un valore quando la materia prima derivi da territori che, nel percepito dello stesso consumatore, esprimono già di per sé un valore di qualità superiore alla media di mercato. Altrimenti, quando questo non accade, si rischia un autogol.

D. La difesa delle produzioni nazionali è anche proposta come antidoto all’abbandono dei campi. In che misura si registra ancora l’esodo dalle campagne?

R. L’abbandono oggi deriva in particolare dalla fuoriuscita delle imprese più marginali e meno orientate al mercato. Tanto è vero che al trend di chiusura delle aziende non corrisponde un’analoga diminuzione della superficie agricola, a dimostrazione del fatto che l’attività continua ad essere esercitata da altre aziende che nel frattempo si rafforzano nelle dimensioni. Più che fermare questo fenomeno ci si dovrebbe chiedere verso quale modello di agricoltura si vuole arrivare, andando ad intervenire sulle politiche di settore che per molti anni (oggi un po’ meno) sono state di natura più “sociale” che “per la competitività”.

D. In questa prospettiva risulta importante un rafforzamento dell’export, piuttosto debole per i prodotti agricoli.

R. Il problema risiede nelle dimensioni delle nostre aziende: oltre il 90% di esse ha meno di 9 addetti e tanto più sono distanti geograficamente i mercati da raggiungere (anche culturalmente), tanto più le dimensioni aziendali segnano la differenza. Negli Stati Uniti, per esempio, vi sono altissime possibilità di crescita. Comunque se è giusto sottolineare la debolezza del nostro export va anche aggiunto che in dieci anni il comparto ha aumentato le vendite all’estero del 58%, coi top di questa classifica che sono il lattiero-caseario (+66%), la carne (+63%), il vino (+59%), la pasta (+5%).

D. Anche il mercato cinese potrebbe avere buone potenzialità?

R. La Cina rappresenta il mercato che nel prossimo decennio crescerà di più in termini di consumi alimentari (e non solo per una questione demografica ma soprattutto di sviluppo economico e reddituale). Si tratta tuttavia di un mercato difficile e complesso dove la cultura alimentare è nettamente diversa dalla nostra. Per cogliere al meglio gli stimoli e le tendenze dovremmo essere più presenti in loco e monitorare da vicino i trend di mercato, ma queste sono attività che solamente le imprese più strutturate possono permettersi.

D. Fatichiamo perfino a fare conoscere in Cina i nostri vini. Nonostante la Cina sia il 5° Paese al mondo consumatore di vino, con un consumo pro capite in continuo aumento, e il primo consumatore al mondo di vino rosso.

R. È vero Esportiamo appena il 5,6% del vino in Cina, contro il 32,4% negli Stati Uniti, il 28,6% in Russia e il 12,3% in Giappone. Comunque negli ultimi 10 anni l’export del vino in Cina è aumentato di quasi il duemila per cento (1.848%: dai 110 milioni del 2006 si è passati a 2,1 miliardi del 2016). Quello cinese è già diventato il quarto mercato per il nostro vino, dopo Stati Uniti (5 miliardi), Inghilterra (3,7 miliardi) e Germania (2,4 miliardi). Rimane una prateria da conquistare e se le aziende vinicole riuscissero a fare sistema....

D. Che cosa manca al sistema agroindustriale italiano?

R. Un maggior numero di imprese leader (e di più grandi dimensioni) in grado di trainare tutto il settore, in particolare nella conquista di nuovi mercati. Se l’export fatica a crescere non è perché non ci sia domanda di made in Italy in giro per il mondo ma perché il numero delle imprese esportatrici è ancora basso (meno del 20%) e fatica ad aumentare.

D. Quello che sta dando il buon esempio è comunque il settore del vino.

R. Infatti il settore, considerando il calo dei consumi interni (passati dai 30,2 milioni di ettolitri del 2006 ai 22,5 milioni del 2016), si mantiene in equilibrio attraverso l’aumento dell’export che si sta riposizionando verso più alti livelli qualitativi (e di prezzo). Nel mercato interno, a tradire il vino sono i millennials, solo l’11% lo consuma, contro il 38% della generazione baby boomer (nata tra il 1945 e il 1964) e il 34% della generazione X (nati tra il 1960 e il 1980). Per fortuna che all’estero aumenta la richiesta di vini di qualità.

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