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La Stampa / Specchio

Elio Altare, produttore di barolo: “Tutti consulenti, nessuno lavora più con le mani” ... Elio Altare è noto per essere il “ribelle dell’Arborina”. La seconda parte del soprannome gli viene dalla collina vicino a La Morra sulla quale sono abbarbicate la sua azienda e le sue vigne migliori di nebbiolo da Barolo. La prima parte invece nasce da un episodio molto noto: quando Elio, agli inizi degli anni Ottanta, impugnò una motosega per distruggere le vecchie grandi botti con le quali in cantina il padre faceva il vino: le sostituì con le più moderne barrique, piccole botti francesi da 225 litri. Ne nacque un Barolo giovane, profumato, elegante che piacque alla critica internazionale. Dai riconoscimenti di Robert Parker in avanti, sono vent’anni che il suo nome, legato anche alla associazione “L’Insieme” che raccoglie giovani viticoltori dediti a opere di beneficienza, rifulge tra le stelle dell’enologia italiana. Oggi, a cinquant’anni passati, Altare può essere considerato uno degli artefici della rinascita di una Langa moderna, che però non dimentica il passato. E infatti lui rifiuta di “pentirsi” di quell’innovazione, nonostante tutte le polemiche. Anche se non rinnega di certo la tradizione. Lo dice quasi con rabbia, mentre in cantina si assaggia uno dei suoi vini straordinari: “Io ho conosciuto la povertà e non ci voglio tornare. Ma nello stesso tempo sono stanco di questa economia di carta che abbiamo imparato a conoscere anche in queste colline. Sono tutti consulenti, ormai. Fanno marketing, comprano terreni, mischiano le uve: e poi? Chi pota le vigne? I macedoni…”.
Allora, Altare, è pentito per aver lanciato, con altri, la nuova enologia di Langa?
“Assolutamente no. Ho lavorato in tempi nei quali era umiliante e frustante andare ad offrire le nostre uve ai commercianti che se ne stavano al caffè Umberto, ad Alba. Aspettavano noi contadini, aspettavano che piovesse, durante i giorni della vendemmia. E quando arrivava la pioggia, mi dicevano: ‘Te la tolgo, la tua uva, per il prezzo vediamo poi…’. Trentacinque anni fa si arava la vigna ancora con il bue, chi voleva un posto garantito andava in fabbrica a Torino”.
Come siete riusciti a risalire la china?
“Con l’ambizione, andando in Borgogna a capire perché loro riuscivano a vendere quelle bottiglie a un prezzo dieci volte superiore al nostro. Abbiamo incominciato a confrontare il nostro prodotto con quello di altri, anche con i francesi. E l’abbiamo migliorato con la tecnica, con il nostro lavoro. Non ho dimenticato la povertà, non ci voglio tornare. Per questo non mi pento affatto. Però…”.
Però?
“Sono anche convinto che è l’uomo a creare la ricchezza del territorio. E qui purtroppo è arrivata l’industria, quella che rovina le colline”.
Quindi anche lei è convinto che si sia esagerato, in Langa?
“Guardi, quando si fanno le rivoluzioni, come abbiamo fatto noi, qualche testa deve cadere. E forse chi era all’apice ha dovuto lasciare il suo posto. Questo è stato all’origine di tante polemiche, sulle barrique e sul modo di interpretare il Barolo. Glielo avevo già detto prima che ci lasciasse, ma Bartolo Mascarello, il produttore che ha incarnato la tradizione del Barolo, in parte aveva ragione. Perché i veri contadini, come io mi sento di essere, non hanno tradito la Langa. Sono gli altri ad averlo fatto”.
Si dice che abbiate piantato troppe vigne.
“In parte è vero, si è optato per una sorta di monocoltura, ed è sempre pericoloso. Ma d’altra parte, cosa potevamo fare? Avevo le pesche, ma ho messo vigne al posto di quel frutteto: mi costavano il doppio o il triplo di quello che costa coltivarle in pianura. E poi a chi lancia queste accuse vorrei ricordare che per impiantare un nuovo vigneto occorrono tante autorizzazioni: l’ispettorato agrario, la Provincia, la Regione Piemonte…. si rivolgano a loro, ai controllori”.
Non può negare che i capannoni hanno reso brutto il paesaggio.
“Abbiamo fatto anche noi dure battaglie contro questi scempi. Ho portato il sindaco di La Morra e un suo assessore a vedere la Borgogna, torniamo sempre lì, perché si rendessero conto di come là hanno difeso il territorio”.
E i paletti in cemento nelle vigne?
“Ce li ho anche io. Ma lo sapete che quelli in castagno hanno il catrame, per durare, e che inquinano? E che gli ultimi arrivati, in abete, verdi e ‘ecologici’, in realtà sono impregnati di petrolio e non si possono neppure toccare? Vogliamo tornare al bue e all’asinello, al fascino delle castagne bollite?”.
Qual è il futuro della Langa?
“Si deve ritornare alla terra, la terra deve tornare in mano ai contadini. Qui arrivano aziende da fuori che investono soltanto per avere un tornaconto ecomico. Serve loro dimostrare che possono produrre certi vini, avere i “bollini” delle Docg o delle Doc. Come lo fanno, dove, con quali uve, non interessa più. Questo è il vero problema, sono diventati tutti consulenti, esperti di marketing, e nessuno sa più lavorare con le mani. La Langa rischia di perdere la sua identità perché si perde la manualità. In questi giorni sto lavorando con Ettore, 67 anni, uno che parla alle piante mentre le pota o vendemmia. Io ne ho trentanove, di vendemmie sulle spalle. Ma so che il futuro non può essere nell’economia di carta. Devo usare macedoni o croati per le mie vigne, gente ottima, lavoratori, ma dove sono finiti i figli della Langa, quelli che dovrebbero garantire il nostro futuro?”. (arretrato de "Lo Specchio de La Stampa" del 15 ottobre 2005)

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