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La Stampa / Speciale Vinitaly

Alla ricerca del vitigno (antico) perduto ... Dall’Albarossa all’Uvalino. Viaggio tra i filari della biodiversità... Gli ampelografì sono un po’ degli Indian Jones della vigne. Si aggirano tra i filari, scrutano foglie e grappoli, confrontano test botanici e analisi del Dna. Una di questi è Anna Schneider, ricercatrice del Cnr, Istituto di virologia vegetale con sedi a Torino, Grugliasco e Bari. Con i suoi colleghi scova nei vecchi vigneti qualche raro esemplare di vitigno autoctono. Quando li trovano, li catalogano, poi li riproducono e mettono a dimora nuove piantine per non perdere preziose testimonianze di biodiversità. Ma questo lavoro può anche avere sbocchi produttivi e uscire dalla sfera della ricerca per arricchire l’offerta di vini. È successo con l’Albarossa, vitigno che il prof. Giovanni Dalmasso ottenne nel 1938 incrociando Nebbiolo di Dronero e Barbera. Ne uscì una vite vigorosa con la stoffa dei genitori. Durante la guerra quelle poche viti furono salvate in un piccolo vigneto sulla collina di Superga e vennero poi riprese e moltiplicate negli Anni Sessanta dal prof. Italo Eynard. Ma solo più di recente, grazie all’impegno di aziende privata e della Regione che ha messo a dimora l’Albarossa nella tenuta sperimentale Cannona nell’Alessandrino questa varietà, inserita nella doc Monferrato, è cresciuta ed ha cominciato ad apparire sul mercato. Al Vintaly tra le decine di migliaia di etichette ci sarà anche l’Albarossa “Montald” di Michele Chiarlo, il barberista che più ha creduto in questo vitigno di territorio. Ma non è il solo. Dopo gli anni della grande sbornia delle varietà internazionali, basata sul quadrilatero franco americano composto dai classici Pinot, Chardonnay, Cabernet, Syrah, il mondo del vino pare aver riscoperto radici e origini. Piccolo è bello e semisconosciuto ancor di più. L’autoctono (parola d’origine greca, letteralmente, nativo del luogo) piace e fa tendenza, Tra gli stand della grande kermesse veronese ci si potrà divertire a cercare i più strani vini italiani. A volte dietro l’etichetta c’è un progetto di recupero e ricerca, altre nascondono denominazioni un po’ di fantasia, frutto di tradizioni del luogo. Non sarà difficile scovarli. Il mensile Civiltà del Bere, nel numero dedicato al Vinitaly, ne traccia una mappa curiosa. Oltre all’Albarossa c’è anche il Barbarossa, nome registrato dalla romagnola fattoria Paradiso come Igt Forlì Rosso. A Sud ecco la Falanghina che nella costiera amalfitana chiamano Albazita e la propone l’azienda Apicella di Tramonti. Stessa zona altro vitigno: il Biancatenera e il cugino Biancolella a Ischia. E risale alle guerre puniche la storia del Bianchello del Metauro, zona di Pesaro-Urbino, che l’azienda Morelli di Fano propone a Verona. Dalla Sardegna tra i tanti vitigni autoctoni spunta il Bovale importato dagli Aragonesi. La casa vincola Argiolas lo assembla con Cannonau e Carignano. Ci sono vini che portano il nome dei loro scopritori, come il Centesimino dedicato a Pietro Pianori, detto appunto il Centesimino che lo scoprì negli Anni Cinquanta. Ora è stato rilanciato dai Poderi Morini nel Faentino. Oppure il Longanesi, dedicato a Antonio Longanesi, contadino di Bagnacavallo nel Ravennate, oggi prodotto da una quindicina di aziende. Altre chicche: il Cococciola abruzzese, il Dindarella della veneta Valpolicella, il Fumin valdostano, resistente al gelo messo in bottiglia da Costatino Charrère. Anche la Fogarina, quella della canzone “oh com’è bella l’uva fogarina o com’è bello andarla a vendemmiar” sarà al Vinitaly, in versione rosé e passita grazie alla cantina sociale Gualtieri di Reggio Emilia. Altre curiosità da scovare: il calabrese Gaglioppo rosso, valorizzato dalla Liprandi di Cirò e il conterraneo Magliocco di origine greca. Ancora dalla Sardegna il bianco Nasco messo in bottiglia dalla cantina sociale di Santadi, e dalla Puglia, il Nero di Troia proposto nella doc Castel del Monte. Il viaggio tra gli autoctoni può continuare con l’Oseleta veneta, uva rossa che deve il nome al gradimento degli uccelli che ne beccano gli acini, così il più noto moscato deriva dalle mosche, attirate dalla sua dolcezza. È un grande marchio come Masi ad averla riscoperta e messa in vendita con il nome Osar. Stessa origine nel nome per la Passerina, uva considerata parente del Trebbiano giallo, vinificata dalla Tenuta del Barone di Teramo. Una citazione la merita il friulano Ramandolo che prende il nome da una collina e infine l’Uvalino, uva antica riscoperta nelle campagna di Costigliole d’Asti da Mariuccia Borio. Dopo anni di ricerche che ne hanno messo in luce il ricco corredo di resveratrolo, (un benefico antiossidante che ripulisce le arterie) la Cascina Castlèt, lo propone col nome Uceline Monferrato rosso doc.

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