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La Stampa

Se troppe parole uccidono il gusto ... Salone del Gusto: ancora un successo. L’abbiamo trasmesso in diretta sera per sera e abbiamo capito che il segreto della sua popolarità sta nella semplicità del messaggio, così come, per “Terra Madre”, grazie ad un linguaggio comune, si sono capiti contadini piemontesi e tanti altri provenienti da ogni parte del mondo. Allora ragioniamo: “una birretta? Perché no, me la farei proprio volentieri …”. Quante volte riecheggia questa frase fra amici? E’ un gioco semplice ed immediato. Viene quasi spontaneo e senza troppe fatiche, riesco a scegliere anche la “media chiara” che meglio si adatta alla mia smania di semplicità ed anticonformismo. La bevo così, facile come parlare al microfono della nostra trasmissione in onda su Radio 2. Con la chiara di turno, il venerdì o il sabato sera io vado sul sicuro. Con il vino no!

Non è così immediato e facile. Il nettare degli dei ha delle regole imposte, auliche ed il suo mondo è gotico, oscuro, fatto di dogmi e dettami rigidi e rigorosi, fin troppo severi. I pochi eletti, padroni del sapere, lo gestiscono come una reliquia e difendono le loro prerogative di tipo sacerdotale dal vasto pubblico che vorrebbe smanioso capire dietro cosa c’è. Ma il vino non arriva dal popolo? Se non sbaglio il motore è il contadino con i suoi sacrifici. La sua cultura è popolare e rurale. Non stiamo parlando del Santo Graal e dei templari, del mistero della vita o delle profezie di Nostradamus, delle posizioni dei druidi o delle leggi biogenetiche per la realizzazione degli aneroidi e nemmeno dei messaggi cifrati in arrivo dalla galassia Andromeda.

E’ il vino il protagonista di questo assurdo paradosso. Implode anziché esplodere, immerso in un circolo vizioso, come un serpente che si morde la coda, si consuma logorandosi anziché brillare di nuova vita e luce propria, non è una stella splendente, ma una nana nera che si consuma. Da nettare degli dei a bevanda del popolo (come nell’Ultima Cena), il vino, in Italia, sembra ormai appannaggio solo di chi può permettersi di spendere 50 euro a bottiglia. Il problema non è il vino in sé, ma piuttosto quello che è stato costruito intorno, l’impalcatura montata ad hoc atta a restaurare la facciata austera del palazzo patrizio, quando in realtà ha solo il bisogno di mostrarsi semplice ed immediato al grande pubblico curioso e ben disposto.

Ma perché si fa così poco per avvicinare al prediletto da Bacco, coloro che si scolano una pinta di birra con la pizza o il panino? O quelli che abbondano con le bevande in tecnicolor dal gusto artificiale e dal contenuto chimico? Perché non si piega ai giovani che è il più bello il rosso rubino o il giallo oro che i colori fluorescenti? Perché un bicchiere colmo di buona bionda costa solo 2 euro mentre mezzo baloon scarso di vino ne costa 5? Negli altri paesi produttori, il vino di buona qualità viene venduto a molto meno rispetto al prodotto delle vigne del bel Paese. Le campagne promozionali hanno messaggi chiari, indirizzato al consumatore moderato, consapevole e semplice.

Le aziende vendono gli esuberi di produzione, anche della migliore, a pochi euro al litro, incentivando il consumo, familiare, madre dell’educazione giovanile. In Italia, no. Cosa si fa per aiutare un comparto che ha evidenti problemi? Si premiamo i grandi campioni, sapidi e struggenti, polposi ed abboccati, quelli a cui si apre la mandorla o dal sentore speziato e vinoso, in rituali autoreferenziali a cui sono invitati i soliti noti, lasciando fuori dalla porta coloro che adesso, per comodità e semplicità, sovrappongono al vino la birra o altre bibite plastiche … perdendoli per sempre.

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