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La Stampa

La scelta del vino può contribuire a salvare l’ambiente … Per il mondo del vino è un momento di riflessione, non solo in Italia. Anche nel cuore dell’Europa vinicola, in quella Francia che da tempo ha legato il buon nome della propria enogastronomia all’ottima immagine dei suoi vigneti, la concorrenza dei Paesi dalla più recente vocazione si fa sentire. Nessun dramma, ma si avverte una certa pressione che ha indotto i protagonisti del settore a sviluppare dei ragionamenti capaci di guardare al futuro. Da questo contesto arriva una notizia che ha attraversato le Alpi e che potrebbe fungere da stimolo anche nelle nostre vigne, non meno ricche e non meno floride. In Francia, in questi giorni, si fa un gran parlare di vino da agricoltura biologica. A dare slancio al dibattito è stato Renè Renou, non certo un personaggio qualsiasi. E’ il presidente delle Aoc (l’equivalente delle Doc nostrane) dunque un’autorità nella comunità internazionale della vigna. Secondo la sua qualificata quanto coraggiosa interpretazione, sono molti i vini che non meriterebbero più la denominazione d’origine. Troppo grande è il solco scavato, nell’ultimo mezzo secolo, dall’uso dei fertilizzanti e degli antiparassitari. Per questa ragione non c’è più corrispondenza tra la pratica corrente e quegli “usi locali, leali e costanti” richiesti dalla legge che da settant’anni disciplina la materia. Sarebbe cosa buona e giusta ritornare ad un rapporto più onesto ed equilibrato nei confronti del territorio, molto provato da modi di produzione invasivi e niente affatto sostenibili. Anche in Italia non manca l’attenzione nei confronti di un’agricoltura improntata a un maggiore rispetto per l’ambiente. Per fortuna il settore vitivinicolo non fa eccezione. Da un lato, sono gli stessi consumatori a considerare, con la dovuta importanza, un modo di intendere il lavoro tra i filari che è molto moderno nel suo sforzo di prevenire al superamento dell’età della chimica. Sull’altra sponda i produttori si stanno mostrando altrettanto sensibili, oltre che capaci di assecondare bene una domanda in espansione. Per alcuni, l’adesione al biologico può rappresentare un buon modo per provare ad emergere in un mercato ancora in stagnazione. Il fenomeno va accolto con favore, a condizione che non si trasformi in una moda per chi compra e in un mero artificio a scopo di pubblicità per chi vende. Una simile evoluzione svilirebbe il significato di un’esperienza positiva. Occorre infatti considerare che nella storia del biologico italiano l’esigenza di salvaguardare la tipicità e la specificità di ogni terroir è stata presente fin dalle origini. L’affinità verso il biologico affiora dal profondo della cultura contadina. Per il viticoltore è una forma di rispetto nei confronti della terra su cui cresce la vite, del proprio lavoro e delle persone che gli vivono accanto. L’importanza di lavorare in un ambiente salubre e libero da contaminazioni è testimoniata dall’insorgere tra i filari di malattie professionali legate all’uso di prodotti di sintesi, nocivi ai parassiti che neanche all’uomo fanno troppo bene. E’ il terreno stesso che patisce e che, alla fine, rimane impoverito. Recenti studi per combattere la flavescenza dorata, una brutta malattia della vite, hanno dimostrato che sol quando il terreno non è stressato da un ricorso eccessivo a sostanze innaturali si conserva la quantità fisiologica di micorizze, microrganismi invisibili ma preziosi. Sono piccoli funghi che vivendo tra le radici in simbiosi con la pianta, la rendono più vitale e più resistente alle malattie. Ottenere, con procedure assolutamente biologiche, un’uva da vino che abbia le stesse qualità di quella coltivata secondo gli schemi tradizionali richiede più impegno e il prezzo non sarà mail lo stesso. Occorre quindi che il consumatore consapevole si assuma la responsabilità di diventare co-produttore, accollandosi l’onere di un piccolo sforzo economico per avere un prodotto pulito, per l’ambiente e per tutti. Al vino biologico anche il sommelier più esigenti potrà perdonare piccoli difetti, ma questo non significa che si possa mettere in vendita qualsiasi cosa. (arretrato de "La Stampa" del 19 giugno 2005)

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