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La Stampa

Ora l’Europa pensa di dar via libera ai vini “truccati”… Archiviata la vendemmia 2005 e lasciato il vino nuovo a riposare nelle botti, è arrivato il momento in cui si tira il fiato. E’ dunque possibile dedicare qualche energia alla riflessione sull’anno appena trascorso, oltre che all’analisi dell’evoluzione che il mondo dell’enologia sta conoscendo dentro e fuori i confini nazionali. La situazione interna fotografata dalla diciannovesima edizione della Guida ai Vini d’Italia lascia trasparire una significativa tendenza di fondo: il ritorno ai vini segnati da un forte legame con il territorio. La valorizzazione dei vitigni tradizionali procede di pari passo alla diffusione di colture sempre più improntate al rispetto dell’ambiente e sono numerosi i produttori che pur non avendo scelto di praticare in modo intransigente il biologico o il biodinamico compiono ogni sforso per affrancarsi dalla dipendenza di fertilizzanti e prodotti chimici. Possiamo dire che in Italia si va verso tecniche di coltivazione e di vinificazione sempre più naturali. In grado di regalare vini di più facile bevibilità ma anche lontani dallo stile enologico imperante in questi tempi di omologante globalizzazione. La strada sembra quella giusta, e se sarà percorsa con coerenza potrà dare ottimi frutti. A condizione, però, di avere il coraggio di continuare a nuotare controcorrente, perché al di fuori dell’Europa si stanno consolidando scelte completamente diverse. In anni recenti la produzione dei cosiddetti Paesi emergenti è cresciuta in modo considerevole, proponendo vini di discreta qualità. Si è insistito su vitigni internazionali molto conosciuti, con una buona propensione all’adattamento a climi diversi e soprattutto capaci di infonder profumi e note facilmente riconoscibili (si pensi all’abuso del legno). L’esigenza di assecondare i gusti del consumatore globale, però ha allentato il legame tra il vino, da un lato, il territorio e la tradizione dall’altro. Ora, tecniche ipermoderne, che poco hanno a che vedere con l’agricoltura, rischiano di snaturare completamente. Nei paesi extra europei dove la coltura della vite ha cominciato a diffondersi solo di recente è perfettamente lecito aggiungere enzimi per arricchire il sapore, aumentare artificialmente la gradazione alcolica attraverso sostanza chimiche, mescolare al vino trucioli di legno durante l’affinamento per “insaporirlo”, coprendo l’inadeguatezza del risultato ottenuto in vigna. Ci sono poi le pratiche estreme, di chi con la vaniglia finge l’affinamento in barrique e di chi, invece, ha il coraggio di spingersi ancora oltre: attraverso vari artifizi non si simula solo la tecnica di produzione ma addirittura il terroir di provenienza. Sono tutti sotterfugi pensati per ingannare i sensi e il cui vero scopo è dare la sensazione di bere qualcosa di diverso, probabilmente meno buono e di minor valore, rispetto a ciò che abbiamo nel bicchiere. Il problema è che una prima bozza di accordo tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti prevede che da qui a poco anche nei Paesi europei più virtuosi si dia il via libera a queste scorciatoie. Una logica perversa che nuocerebbe all’immagine e al valore del vino italiano, senza recare alcun vantaggio. Io resto convinto che il vino, quello vero, debba continuare ad essere fatto con l’uva, il lavoro dell’uomo e la sapienza maturata da generazioni di contadini nei secoli. Questo non significa rigettare ogni tecnologia in grado di darci un vino migliore, il rifiuto riguarda solo quelle tecniche il cui scopo è di correggere a posteriori i difetti di un vino di bassa qualità. Oltretutto, non è vero che si tratta solo di un modo per aumentare la competitività riducendo i costi di produzione: questi scendono solo perché è la qualità dell’offerta a calare. Occorre sottrarsi alla dittatura della quantità, scommettendo su numeri ridotti ma curati nel dettaglio e dai quali è possibile ottenere una adeguata remunerazione. La competitività dei vignaioli italiani si è sempre giocata sull’eccellenza. Le nostre bottiglie sono apprezzate per il contenuto, quando conservano ottimo vino, e perché sono uniche, non riproducibili altrove. Solo lo stretto legame con un territorio vocato alla qualità conferisce al vino quell’unicità indispensabile per renderlo tanto amato in molti paesi del mondo.
(arretrato del 20 novembre 2005).


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