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La Stampa

“Tra Chianti e Barolo scelgo la California” ... Famiglia di produttori. «Il peso della tradizone significa avere il dovere di cercare nuove strade»...
Piero Antinori, la sua famiglia nell’immaginario collettivo rappresenta il Chianti...
«E una bella responsabilità perchè sono sei secoli che la mia famiglia produce vino. Sono orgoglioso ma sento il peso di avere una lunga tradizione: significa avere il dovere di cercare sempre il nuovo. Oggi la tecnologia ha un ruolo importante, mi sento spinto a trovare qualcosa che ricrei una tradizione: le nostre radici si trovano nel Chianti e per secoli abbiamo operato solo in quella zona, sinonimo di vino italiano».
Lei ha portato il Chianti dal fiasco alla bottiglia, vero?
«Ho avuto la fortuna di trovarmi a operare in un momento stimolante. Per secoli si è prodotta più quantità che qualità, oggi è il contrario. Il passaggio dal fiasco alla bottiglia è il simbolo della qualità. Quando cominciai alla fine dei ‘60 si parlava solo di fiasco».
Ha inventato il Tignanello e il Guado al Tasso. Che cosa vuol dire inventare vini?
«Il Tignanello ha rappresentato un giro di boa. E’ stato il simbolo della qualità. Si trattava di vita o di morte, alla fine degli Anni ‘60 eravamo in una situazione disperata. Molti colleghi avevano abbandonato. Gli imprenditori non erano preparati a una viticultura moderna e quindi la qualità del prodotto degradava. Mi trovai a prendere la responsabilità del gruppo in quel periodo. Dovetti scegliere: o cambiare mestiere o cambiare trend».
E poi?
«Non volevo cambiare mestiere, mi ero innamorato del vino. Mio padre mi aveva avviato a questo lavoro, cominciai a guardarmi intorno. Andai in Francia per vedere che cosa avevano fatto. A Bordeaux ho avuto la fortuna di incontrare Emile Peynaud, illustre enologo. Si appassionò ai miei problemi e venne ad aiutarci, a farci capire qual era l’approccio che bisognava seguire».
Che avete fatto?
«Sperimentazione nel miglior vigneto che avevamo: il Tignanello, facendo un vino che era diverso, più moderno ed elegante, più complesso. Ebbe subito un successo incredibile ovunque, non solo a Firenze. Conservammo comunque il nostro carattere tipico».
E il Guado al Tasso? È un vino che viene dalla famiglia di sua madre...
«Sì. A Bolgheri la tenuta apparteneva alla famiglia Gherardesca, quella di mia madre. Possedevano i terreni di questa zona famosa per i cipressi di Carducci. Il vino di questa terra è diventato famoso in tutto il mondo grazie alla notorietà del Sassicaia, prodotto nell’azienda di mia zia».
Che differenza c’è tra Chianti, Tignanello e vino di Bolgheri?
«Sono fatti con uve diverse: il Tignanello con la tipica uva toscana che è il Sangiovese, a Bolgheri con un uvaggio di Cabernet e Merlot. Nel Guado al Tasso c’è un’aggiunta di Syrah».
L’aria di mare fa bene?
«Era sempre stata considerata negativa, invece è un vantaggio dal punto di vista del microclima. Inverni miti ed estati fresche. Il Chianti invece è in un clima più continentale».
Lei ha comprato il Prunotto, azienda delle Langhe: come mai?
«Perché a un certo punto abbiamo pensato che fosse importante disporre dei migliori vini rossi, non solo in Toscana ma anche in Piemonte. Abbiamo avuto l’opportunità di prendere questa vecchia azienda piemontese e ormai vi siamo affezionati, il Prunotto è nostro da 25 anni. Se n’è occupata una mia figlia per molto tempo».
Qual è il migliore dei vini piemontesi?
«Il Barolo, il re dei vini piemontesi. Ma c’è anche il Barbaresco che ha altre sfumature. E quello che è curioso è che in poche centinaia di metri il Barolo può avere caratteristiche diverse».
Meglio il vino toscano o quello piemontese?
«Chiedendolo a un toscano si rischia di essere parziali, sono grandissimi vini tra loro diversi, io li bevo entrambi. Certo con la cucina toscana è più adatto il vino toscano, e il vino piemontese con la cucina piemontese».
Siete andati anche in California...
«Abbiamo acquistato un vigneto nella Napa Valley, a nord di San Francisco, e con grandi soddisfazioni. I vini, soprattutto quelli rossi, sono di grande qualità, non hanno nulla da invidiare a quelli europei».
La successione è garantita, vero?
«Sì. Ho tre figlie e sono tutte molto appassionate. Sono coinvolte e attive nell’azienda, mi sembra che si divertano a fare questo mestiere».
Oggi quella del vino è una moda?
«E' un po’ una moda. Il mondo è cambiato, quando ho iniziato io gli agricoltori non volevano impegnarsi, oggi produrre vino col proprio nome è diventata una cosa cui molti ambiscono».
La media dimensione di un vigneto italiano è di un ettaro, voi quanti ne avete?
«In tutto 1800, produciamo 16 milioni di bottiglie all’anno. Il 40 per cento lo vendiamo in Italia, il resto nel mondo».
(arretrato de La Stampa del 7 gennaio 2007)
Autore: Alain Elkann

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