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La Stampa

Il barbera della gioventù sì buono e perduto ... Quando il vino si faceva coi piedi e subiva la “prova tovaglia”... Il primo dubbio è di genere lessicale: si dice (del vino) il barbera, maschile o la barbera femminile? Il Grande dizionario della lingua italiana della Utet non dà risposte definitive. Carducci sceglie il maschile, Pascoli usa il femminile e accompagna il nome del vino con un aggettivo: purpureo (“la purpurea barbera”) che in qualche modo serve a connotarlo. Tommaseo propende per il maschile del vino e per il femminile dell’uva da cui viene ricavato: e questo, tra tutti gli usi possibili, mi sembra il migliore.
Il secondo dubbio riguarda il vino. Esiste ancora, il barbera? Avendo vissuto per dei brevi periodi negli anni Cinquanta del secolo scorso in due “santuari” di questo vitigno, prima a Nizza Monferrato e poi sulle colline intorno a Tortona, stento a far combaciare i miei ricordi con la realtà di oggi.
Io, allora, per ragioni anagrafiche (avevo circa dieci anni) non ero un bevitore di vino: ma ricordo il colore del barbera, viola scuro, e ricordo le discussioni tra vignaioli, gente che spesso faceva un altro mestiere ma che continuava a coltivare la vigna dei padri e dei nonni, e naturalmente a fare il vino In un’epoca in cui ancora non si andava tanto per il sottile, il gusto del perfetto barbera veniv2 definito con l’aggettivo “amaro” (amaro, non aspro) e il colore doveva essere scuro, il più scuro possibile.
Molti di quei produttori d’antan tenevano nella loro vigna qualche pianta di un’uva di cui io purtroppo non ricordo più il nome, con i chicchi piccoli e neri come l’inchiostro, che serviva a rendere scurissimo un vino già scuro per sua natura. C’era, all’epoca, ed era fondamentale, la “prova tovaglia”. Le macchie divino dovevano essere di un bel viola scuro, e attorno al viola doveva allargarsi un alone privo di colore. Quanto più scura era la macchia e più vasto l’alone, tanto più il barbera veniva lodato. Infine, nel mondo capovolto di allora, il barbera doveva avere un’ultima qualità: quella di essere giovane.
“Ti darei qualche bottiglia del mio vino - diceva il produttore all’amico in visita -, ma è ancora quello di due anni fa. Se passi la settimana prossima, ti do quello nuovo”.
Altri tempi. La guerra era finita da poco, il miracolo economico non era ancora arrivato e l’Italia era una Paese povero, dove il vino si faceva, letteralmente, “con i piedi”. Poi sono passati tanti anni. Un giorno (era il 1976) mi trovavo a San Salvatore Monferrato per il convegno su “Igino Ugo Tarchetti e la scapigliatura” e un amico mi fece conoscere la Cantina Sociale di Lu, che è un altro borgo delle nostre belle colline. Ci accolse un signore burbero, già anziano, che riconosciutici per forestieri, ci disse: “Qui facciamo due soli tipi divino, il barbera da dodici gradi e il barbera da tredici”. Grazie a quel signore burbero, per qualche tempo sono stato un cliente abbastanza assiduo della Cantina Sociale di Lu.
Il barbera da dodici gradi (e anche quello da tredici) della Cantina Sociale, forse non era comparabile con i vini della mia infanzia, fatti con i piedi: ma aveva un colore abbastanza scuro e, sia pure con un alone striminzito, reggeva anche la prova tovaglia. Aveva un solo difetto, che però a me non dava fastidio: sul fondo di ogni bottiglia c’era almeno un mezzo centimetro di sedimento, e in quel mezzo centimetro si riconoscevano frammenti di buccia, di graspo, forse anche di semi. Bastava versare lentamente e il sedimento restava dov’era. Un giorno (eravamo già negli Anni Ottanta) torno da Lu con il mio carico di bottiglie e trovo la sorpresa. Il sedimento in fondo alle bottiglie era sparito ed era sparito anche il colore viola del barbera. Il vino era diventato così limpido, che attraverso la bottiglia ci potevi leggere il giornale. Non proprio un rosé, ma quasi.
Era arrivato l’enologo.
Da allora, lo confesso, non sono più riuscito ad avere un rapporto pacificato col barbera, che pure è il vino dei miei ricordi d’infanzia ed è anche il più popolare dei vini rossi italiani. Nei barbera che mi propongono, e che a volte bevo, non trovo più quel colore viola intenso che Pascoli definì “purpureo”, forse per rendere omaggio a Omero. (Nell’Odissea, ogni colore intenso è purpureo). Non ci ritrovo quel gusto che non so come oggi venga definito dagli esperti, ma che nei miei ricordi d’infanzia è racchiuso nell’aggettivo “amaro”. Trovo etichette iperboliche, e a volte anche prezzi iperbolici, che parlano di “antichi vitigni”, di lunghi invecchiamenti in botti speciali, di cose che con i miei ricordi del barbera, e con il barbera, hanno poco a che fare... Un giorno, in un’altra Cantina Sociale di un altro paese del Monferrato, che non nomino, mi stupii di vedere un’esposizione di vini bianchi con nomi fantasiosi, e chiesi a un addetto da quali uve (bianche) venissero. Ne ebbi questa risposta, lapidaria: “È tutto barbera decolorato”.
Ah, dimenticavo. Un paio d’anni fa sono ritornato in uno dei miei luoghi d’infanzia, e il figlio di un viticultore d’allora mi ha regalato qualche bottiglia del “suo” vino, fatto da lui per il suo consumo personale, come si usava cinquant’anni fa.
Il barbera della mia infanzia esiste, ma non lo fa più nessuno.

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