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La Stampa

A Bologna la rivolta del popolo delle osterie ... “Cofferati vuole imporci il coprifuoco? Un Cuba Libre lo seppellirà”... Da dove si erano seduti, lui e Rosa, sui gradini dell’entrata, sembrava l’inizio della fine del mondo. Ma non è perché erano le dieci di sera e Wladimir stava chiudendo il Barazzo, come da ordinanza del sindaco (“... e grazie Sergio”), in un marasma di fumi e di trecce, perché erano venuti tutti qui a far festa per stargli vicino: c’erano due meccanici che ragionavano di sussidi di disoccupazione mai arrivati, e c’era qualche innamorato, ma c’erano un mucchio di studenti e tutti quei volti bitorzoluti e quegli accenti nasali che dovevano venire da altri luoghi, da altre epoche, da un corteo del ‘77, da una tempesta di polvere degli Anni Trenta, da qualche coro con la kappa o da qualche graffito sui muri. C’erano anche dei cani al guinzaglio e forse ce n’era pure qualcuno che vagabondava annusando quest’aria da frontiera etilica come se fosse pure lui in pieno delirio alcolico.
Però, cento metri più in là, alla stessa ora e allo stesso minuto, Valentina Licci tirava giù la sua saracinesca del Mammuth nel silenzio della sera, come Sanhaji, nel caffè accanto, il Tarcaban, e lui e Rosa quello stavano guardando, dal loro scalino sulla fine del mondo. La serranda di Osvaldo era già sprangata. E’finito in ospedale per un malore. E dice che “ormai vuole chiudere tutto”, che “non ha più senso andare avanti così”. Anche noi un po’lo pensiamo, che c’è sfuggito qualcosa, dentro a questo silenzio irreale, dentro a questo vuoto catatonico, alle dieci di sera, al Pratello di Bologna. Tutto è così fermo, eppure così schizofrenico, nei sorrisi forzati, negli occhi sbarrati e nei calici vuoti, come se non ci fosse niente di vero. C’è qualcosa di strano tutt’attorno a noi, e non è la maglietta di Shanaji con la scritta “La famiglia di Sergio al primo posto. La mia per strada”, e non sono neppure le fiatate rancide di Joe Martello che fra una birra e l’altra ti insegue per ripeterti che “non siamo mica dei delinquenti, e al mattino ci alziamo anche noi come tutti per andare a lavorare”. Forse, fa più effetto la signora del Montesino che ti spiega con bolognesissima rassegnazione dove sederti se vuoi prendere qualcosa: su quella sedia di paglia appiccicata al gradino, ma senza sporgere il bicchiere. “Ci scusi tanto”, dice, “ma abbiamo delle strane leggi in questo paese. Non dovete tirare fuori i piedi dallo scalino se volete bere”. Come ricorda Wladimir, nel 1980, un altro sindaco di Bologna, Zangheri, “chiedeva ai locali di tenere aperto il più possibile per combattere la droga. Adesso invece ci fanno chiudere alle 10 di sera.
Ma una città senza luci è una città nemica, che fa paura”. La cosa strana è che tutto questo un po’è vero. Alzando lo sguardo sopra di noi, le finestre della case hanno le persiane chiuse, ma si intravedono le luci accese. Sembra un mondo lontano, anche se Sanhaji ti mostra tutte le firme di solidarietà dei residenti, da Marchisini Dino a Bonora Beatrice, a Marco Giuditta, e poi giù tutto il foglio. Sergio Cofferati, il sindaco sceriffo di Bologna, ha obbligato 5 osterie del Pratello a chiudere alle 10 di sera (anziché alle 3 di notte) per motivi di ordine pubblico. Altri, dicono, ne seguiranno. Dopo l’editto sulla birra (vietato berla per strada) è l’ultimo colpo alla notte un po’melanconica di Bologna. Ma non basta a spiegare la trasformazione di una città, divenuta, a suo modo, un luogo della crisi emblematico per raccontare la nuova Italia spaventata dalla bolla finanziaria. Una ricerca commissionata da Manager Italia - associazione di dirigenti e quadri del terziario - ha scoperto una cosa che stupisce solo apparentemente, cioè “la marcata differenza tra l’immagine che gli italiani hanno di Bologna e i giudizi di chi ci risiede”, come spiega Enrico Finzi, presidente dell’Astra, la società che ha preparato questo studio. Se fuori la maggioranza pensa che sia bella (il 65 per cento), accogliente e generosa (il 62,5), qui i favori scendono rispettivamente al 31 e al 20 per cento.
Lontano dicono che è tenuta bene (61,5). Qui invece il giudizio è impietoso: solo il 2 per cento lo pensa. Alla fine, il Pratello è soltanto una faccia di questo cambiamento: la Bologna godereccia non piace più ai bolognesi. Ma se è così, l’unica strada percorribile è davvero quella di chiudere tutto? Al Pratello, in una delle vie più popolari di Bologna, fra i ritrovi di Radio Alice e le memorie del ‘77, dal Cantinone al Mutenye di Sante Notarnicola (che dopo aver scontato la pena per il sangue versato con la banda Cavallero ha aperto questa osteria), la cosa che colpisce di più è la lontananza fra la città e i ragazzi che si assiepano fuori dal Barazzo ad aspettare il loro lutto. Non è che sono troppi. Sono quelli che ci sarebbero in una serata normale, senza chiusura, un centinaio o giù di lì.
Ma dopo che cosa resta? “Il silenzio totale, un senso di vuoti e di sconforto”, come dice Wladimir Corrente? “Rimarrà una città senza luce. Il silenzio del coprifuoco”. Può darsi che sia esagerato. Però anche a Rosa sembrano la fine del mondo questi marciapiedi vuoti davanti al Mammuth alle 10 di sera. Su una bacheca, in questa atmosfera surreale, ci sono solo messaggi per Cofferati: “Caro Sergio fottiti”. “Sei arrivato come Sergio. Esci come Silvio”. Urla uno: “Sarà un Cuba Libre che vi seppellirà”. Più in là, l’ultimo striscione: “Il silenzio che cercate è un deserto di terrore”.

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