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La Stampa

Olmi, gran maestro dell’arte del vino ... Documentario in Valtellina: “Lì l’uomo ha graffiato la roccia per farne vigne”... Il vino per conoscersi meglio, per difendere la propria cultura, per ridere, per fare amicizia, per tornare a sentirsi vivi, il maestro Ermanno Olmi gli ha dedicato il suo ultimo lavoro, Rupi del vino, girato in Valtellina, per raccontare, attraverso le immagini, “la realtà, la storia, l’eccezionalità e i valori immateriali” dei vigneti della zona, il documentario sarà presentato in anteprima nella sezione “Extra” del prossimo Festival di Roma, quella che declina i linguaggi del cinema nelle forme più varie e inattese. E infatti della stessa sezione, curata da Mario Sesti, fa parte Corked, il film, a metà strada tra finzione e realtà, girato da Paul Hawley e Ross Clendenen nella California contagiata dalla mania enologica. Sul grande schermo il vino è sempre più superstar, esaltato nelle sue mille potenzialità. E il pubblico assapora con gusto, trasformando, come è avvenuto qualche anno fa, piccole produzioni tipo Sideways e Mondovino, in film-fenomeno da grandi incassi e grandi premi.
“Nonostante l’arroganza dell’uomo - ha spiegato Olmi -, la terra resta legata al grande mistero cosmico. Lo si vede in Rupi del vino, gli uomini hanno graffiato la roccia, traendone vigne, orti e terrazzamenti che impediscono alla montagna di venire giù”. Realizzato anche con lo scopo di “facilitare il riconoscimento di patrimonio Unesco” delle zone filmate, il documentario vuole contribuire “alla presa di coscienza dei valori identitari e culturali” degli abitanti della Valtellina. Perché chi vive di vino ha molto in comune. Dall’altra parte del mondo, nel Nord della California, i protagonisti della fiorentissima industria sono descritti con i toni della satira. Sembrano tutti fuori di testa, impegnati allo spasimo in una gara dove la regina delle sconfitte coincide con la realizzazione di un vino “corked”, ovvero che sa di tappo. Per un critico non c’è niente di più imperdonabile, per un produttore niente di più infamante. Il reportage, che inizia con tono serioso e scivola immediatamente in un clima da fratelli Coen, gioca con gli stereotipi legati alla cultura enologica che ha invaso gli States negli ultimi anni. Si parte dal tentativo di definire “lo stato mentale” dei Paesi dove si fa il vino e si finisce con personaggi stralunati davanti a trofei che riproducono grappoli d’oro. In mezzo interviste a finti esperti del settore, critici improbabili, bizzarre compagnie produttrici.
La vinomania era stata celebrata in chiave globale da Jonathan Nossiter in Mondovino, una specie di giro del mondo in mille vigneti, dal Mediterraneo alla California, al Sudamerica: “II vino - aveva osservato il regista - è l’espressione dell’essere umano, la sua storia, la sua cultura.
il “terroir” è il territorio, la sua radice, il vino è un testimone, Italia e Francia sono le tradizioni”. Per Nossiter Mondovino è “un atto d’amore per l’essere umano. L’uva che si fa vino è una magia, una grande esplosione di civiltà, lo specchio della complessità dell’uomo. Per Alexander Payne, regista di Sideways (che significa “obliquamente” e allude al modo con cui cammina chi ha alzato troppo il gomito), la bevanda è anche un modo per classificare l’indole delle persone: “Il vino è come gli uomini: qualcuno è fragile, altri resistono a tutto”. D’altra parte perfino Rusell Crowe, il gladiatore muscoloso di tanto cinema hollywoodiano, è stato costretto, in Un ’ottima annata di Ridley Scott, a cedere al morbido fascino del vigneto francese. Certo, il merito era anche di Marion Cotillard, ma forse, senza grappoli d’uva sullo sfondo, nemmeno lei sarebbe riuscita a trasformare in viticoltore un cinico broker londinese. Anche Profumo del mosto selvatico di Alfonso Arau, remake di Quattro passi tra le nuvole di Blasetti, vigna assolata e il rito dei chicchi pestati nei tini, servono a accentuare l’atmosfera romantica dell’incontro tra i protagonisti, Paul Sutton (Keanu Reeves) e Vistoria Aragon (Aitana Sanchez Gijon).

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