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La Stampa

“Il vino non è un marchio” ... I piccoli vignaioli contro le norme dell’Ue: “Vogliono un prodotto senz’anima né storia”... Pare che neanche Karl Marx sfuggisse al fascino di un calice di Château Margaux del 1848. Eppure, anche oggi uno spettro si aggira per l’Europa: è il fantasma del vino relegato a semplice bevanda, a brand industriale senza anima, cuore e territorio. Praticamente, il vino come uno yogurt con un po’ di alcol. Vigneti liberi di crescere ovunque, etichette sibilline che magari riporteranno la quantità di calorie, ma non la denominazione d’origine, vini rosé in grado di nascere semplicemente mescolando il bianco con il rosso. “Se negli uffici di Bruxelles si percorrerà questa strada, il vino rischia davvero di fare la fine dello yogurt. Tutti lo mangiano, ma nessuno è in grado di dire da dove arriva il latte con cui è prodotto”. Oppure quella dell’olio: “Basta chiudere il tappo dentro i confini nazionali per poter dichiarare in etichetta che è prodotto in Italia, anche se le olive e l’olio stesso arrivano da chissà dove”. A dirlo non è una voce sola. Sono i mille Vignerons d’Europe che da ieri sono riuniti a Montecatini Terme per discutere insieme con Slow Food del futuro del vino, di sostenibilità ambientale, sociale ed economica della vitivinicoltura. C’è di tutto in questo meeting organizzato con la Regione Toscana, che propone degustazioni alle terme: fieri vignaioli baffuti in arrivo dalla Francia e timidi produttori della Georgia, solari contadini portoghesi e pragmatici agricoltori tedeschi. Tutti, però, coltivano la loro vigna, ne raccolgono l’uva, la lavorano in cantina e infine vendono il proprio vino, controllando quindi l’intera filiera e potendo garantire il percorso qualitativo. E tutti puntano il dito contro la lobby delle grandi industrie che a livello europeo stanno tentando con leggi e leggine di omologare, globalizzare, spersonalizzare un prodotto che da sempre ha la sua forza e il suo fascino nell’essere la pura espressione di un territorio e della sua cultura. Una battaglia non facile, tanto più in tempi di crisi. “Sul mercato di Londra, arrivano cisterne di vino australiano vendute 0,40 euro al litro. In Italia, ci sono bianchi doc messi sul mercato a 1,5 euro la bottiglia. Se andiamo avanti di questo passo, per i piccoli produttori è la fine” dice Ampelio Bucci, uno dei 600 membri della Federazione italiana vignaioli indipendenti. “Dobbiamo resistere e ribellarci a questa deriva, anche perché il consumatore è meno stupido di quanto pensi la grande distribuzione”. Carlo Petrini, che due anni fa a Montpellier aveva dato il là alla nascita dei Vignerons d’Europe, a Montecatini rincara la dose: “In un mondo dominato dai commercianti, non c’è più la capacità di capire la differenza tra valore e prezzo. E se il prezzo è l’unico punto di riferimento, non c’è più spazio per nulla, come abbiamo visto nei casi del latte, dei cereali, dell’allevamento”. Ecco perché per il presidente di Sow Food “la politica del vino deve essere fatta dai vitivinicoltori. Se a Bruxelles comandano le multinazionali, noi dobbiamo fare sistema, superare i limiti del nazionalismo e contrapporre questa nostra multinazionale virtuosa di piccoli produttori impegnati nel rispetto di identità, sostenibilità, qualità, tradizione ed economia locale”. Principi che i Vignerons d’Europe oggi discuteranno in vari seminari per arrivare alla stesura di un “Manifesto europeo per una viticoltura sostenibile” che verrà presentato domani mattina a Firenze, nel vasariano Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. Il Rinascimento del vino non poteva trovare luogo più simbolico.


“Nella globalizzazione la parola vigneto non ha più valore”... “In un anno di vita, la nostra Federazione ha già raccolto seicento adesioni”, spiega Costantino Charrère, produttore di Aymavilles, in Valle d’Aosta, e presidente della Federazione italiana vignaioli indipendenti. “Ma i francesi, che in queste battaglie sono dei maestri, sono più di seimila. È l’ora di ribellarci alle nuove norme europee che regolano le produzioni agro-alimentari con procedure che tutelano soprattutto il processo di trasformazione del prodotto. È una globalizzazione che rischia di snaturare completamente i valori della qualità e della autenticità, di far perdere il significato a parole come vigneto, cultura del luogo, diversità dei territori. Se abbasseremo la guardia, arriveremo alla delocalizzazione produttiva anche per il vino: vigneti coltivati in Bulgaria, mosti trasportati in Italia e vino venduto con chissà quale etichetta”.


“Vogliono togliere fascino e magia al nostro mestiere”... “C’è chi vuole mettere il vino sullo stesso piano delle caramelle o dei piselli, con unica differenza il grado alcolico”, dice Xavier de Volontat, produttore francese del Languedoc-Roussillon e presidente della Confédération Européenne des Vignerons independents. “Noi vignerons siamo più di duecentomila in tutta Europa e garantiamo la continuità tra terroir e prodotto, preserviamo paesaggi e cultura. Eppure a livello europeo siamo gravemente minacciati. Etichettando il vino solo con un marchio, si perde la possibilità di valorizzare il produttore come legame forte con il territorio, e questo legame deve essere chiaro. Non si può slegare il vino dal concetto di origine, non si può restare indifferenti davanti a chi vuol togliere il fascino e la magia del nostro mestiere”.


“Anche l’agricoltura socialista dimenticava le tradizioni locali”... “I numeri del vino, in Slovenia, sono piccoli: 20 milioni di bottiglie prodotte grazie a 20 mila ettari di vigneto, tanti quanti ce ne sono in Friuli. Ma sono molto importanti per la nostra economia e identità culturale”, dice Primoz Lavrenèiè, produttore di Vipava e agronomo. “Per quasi cinquant’anni, il modello di agricoltura socialista ci ha imposto una viticoltura intensiva e basata sulle varietà internazionali come merlot e chardonnay. E ci ha fatto perdere quella grande tradizione che ci accomunava alla zona del Collio, in Friuli, e a quella austriaca. Ma da qualche anno si è sviluppato un movimento che è andato alla ricerca delle identità perdute della nostra viticoltura. Abbiamo creato un gruppo di aziende famigliari e siamo già quasi in cento, impegnati a coltivare vitigni autoctoni come ribolla, malvasia, tocai friulano, zelene refosco”.

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