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La Stampa

“Nel mio rosso rinasce il padre dei Cannonau” ... Nell’Ogliastra i vitigni di un mito che si credeva perduto. Si chiama Perda Rubia e risveglia sapori antichissimi... Perda Rubia è una di quelle cose che ti capitano per caso. Come i Malbec d’Argentina, nasce da viti a piede franco. Per questo si parla del Perda Rubia come ultimo dei Cannonau. Il solo capace di raccontare un gusto, una storia e una matrice organolettica che facciano tornare indietro alla notte dei tempi. In questa landa povera dell’Ogliastra era passato anche Mario Soldati. Vino al vino, terzo viaggio, 1976. C’era ancora il fondatore dell’azienda, Mario Mereu. “Il suo vino è un Cannonau, lui lo ha battezzato Perda Rubia, corruzione del sardo Perda Arrubia: cioè pietra rossa. Nel libro di sir Cyril trovo un grande elogio: Perla Rubia, a particularly fine example of Cannonau ”. Malgrado la svista del proto, si potrebbe dire davvero che si tratta di una Perla. L’azienda agraria si trova nella provincia dell’Ogliastra, tra i Comuni di Cardedu, Taluna e Baunei. Nel sito Internet il Perda Rubia non è solo l’ultimo dei Cannonau: è anche il vino “dedicato a chi non ha ancora il telefonino”. Proprio come chi, oggi, il Perda Rubia lo fa. Renato Mereu, figlio di Mario. Capelli corti, brizzolati. Fisico asciutto, voce sicura, piccola inflessione sarda. Passione genuina. Feroce adesione al territorio, come le viti a piede franco. “Una mia scoperta, ho lavorato all’individuazione di una vite che potesse vivere senza piede americano. Posso dire di avere raggiunto il genoma del Cannonau vero, quello autentico, il più antico vitigno dell’area del Mediterraneo. Chi beve Perda Rubia beve un vino d’altri tempi, a partire dalla pianta che ne produce il frutto”. Si tende a dare per certo che il Cannonau sia il nome dato dai sardi a ciò che gli spagnoli chiamano Garnacha, i francesi Grenache, i liguri Granaccia, i maremmani Alicante e i vicentini Tocai Rosso. Renato Mereu ha dedicato meticolose ricerche alla storia del vitigno. “Non ho basi scientifiche per poter confutare questa tesi, ma la ritengo falsa. Il Cannonau è stato trovato nei più antichi nuraghe, è l’uva con più storia del bacino mediterraneo. Dicono che venga dalla Spagna perché gli spagnoli sono stati in Sardegna, ma dimenticano che molto tempo prima furono i greci ad approdare in Spagna”. È possibile riconoscere un vino ottenuto da viti a piede franco? La risposta di Mereu è netta. “Certo che è possibile. Provate a fare una degustazione alla cieca tra una serie di Cannonau: il Perda Rubia lo riconoscerete. A partire da quella sensazione inconfondibile di frutto speciale”. Frutto speciale: siamo all’intraducibile. La parola frutto rimanda a sensazioni precise, è più gestibile, nel Perda Rubia vuol dire ad esempio il dolcino dell’uvaspina. Speciale ha invece a che fare con il soggettivo. Con l’immaginazione. Ognuno ha l’onirico che si merita. L’utopico di riferimento. Non ci sono più regole, solo un tenero fantasticare. Occorre assaggiare e assaggiare ancora. È forse allora che scorgi davvero qualcosa di speciale. Non solo il prezzo irrisorio di 10 euro. Ha qualcosa di antico, rimanda sul serio a quella percezione di vino contadino, prodotto da un nonno abbastanza umile da sapere che non basta essere vecchi per saper invecchiare. Il Perda Rubia è la Sardegna che fu scudo agreste per Fabrizio De André, sequestrato come Mario Mereu e non per questo meno innamorato di lei - dell’Hotel Supramonte, della sua donna in fiamme - dopo la violenza subita. È la terra-mangia-barche dentro cui Massimo Carlotto, dopo decenni di calvari esistenziali e ancor più giudiziari, seppe rinascere, autentica e forse unica resurrezione laica italiana. È un Gran Torino dove alla fine Walt Kowlaski non muore, perché in questo nuovo nuraghe non avverte più l’obbligo del sacrificio per sopravvivere. È una DeLorean alcolica, sì, ancora quella uscita chissà come dal set di “Ritorno al futuro”, stavolta grande al punto da farci salire tutti sopra. A patto di stare al gioco. Di avere abbastanza fantasia. Rispetto. Follia. Il Perda Rubia è allora e forse il vino che, se le osterie di fuori porta fossero aperte come un tempo, servirebbero ancora, in boccali contadini e bicchieri privi di convenevoli, tovaglie comuni e parole d’epoche già troppo distanti. Parole, sintagmi, fonemi capaci di germogliare: dare senso un’idea, vita a un progetto. Carburante buono per mettere in moto la DeLorean alcolica, scivolando indietro nel tempo con lei, come pietre rosse che rotolano giù, fino all’attimo in cui - se poi mai è esistito - tutto funzionava. Quando eravamo ancora, e miracolosamente, intatti.

Il libro. Champagne o metodo classico? Chenin BIanco Garganega? Sono due dei 10 abbinamenti a volte audaci tra vini italiani ed esteri proposti nel libro “li vino degli altri)) di Andrea Scanzi. Lo scopo non è quello di stabilire graduatorie ma di conoscere meglio “i vini degli altri” attraverso il confronto con i nostri.

Così l’Italia risponde allo straniero.

Brescia.Lo Champagne Italiano Metodo Classico Franciacorta Cavalleri; Cinque Terre. Lo Sciacchetrà di Walter De Battè, il bianco italiano accostato al Tokaj ungherese; Livorno. Il Bordeaux italiano Bolgheri Ornellaia; Livorno. Ancora Bolgheri, ancora Cabernet: il Franc in purezza di Cinzia Campolmi (Paleo) accostato ai vini della California; Perugia. Il Sagrantino di Montetalco di Paolo Bea, altro vinonverista, associato alla Rioja spagnola per i tannini scontrosi dei due vitigni; Ogliastra. Altra associazione azzardata: il Malbec andino e un Cannonau alcolico e misterioso: il Perda Rubia; Pescara. Il miglior Trebbiano d’Abruzzo italiano, di Valentini. Associato ai Riesling tedesco per longevità irreale, rigore e difficoltà nella degustazione; Catania. L’Etna del Nerello Mascalese, per molti è il Pinot Nero italiano; Vicenza. Angiolino Maule, l’eretico di Enolandia, padre dei Vini Naturali e creatore di ottime Garganega (lo Chenin Blanc italiano); Arezzo. Il migliore Syrah italiano: quello di Tenimenti D’Alessandro a Cortona.

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