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Libero

Investire in vino … Mercato stabile, rendimenti che sul breve sono paragonabili a quelli dell’oro Genera profitti anche investendo poco. Se poi si azzecca l’etichetta giusta... Non c’è solo da brindare, c’è anche da investire. Ché noi siamo abituati ai vini del super, magari dell’enoteca giù all’angolo della strada, una di quelle botteghe di una volta che ti risolvono la cena dell’ultimo minuto. Epperò qui, una bottiglia come si deve, rinomata, riserva, più o meno centellinata, pure da collezione, vale anche più dell’oro. Letteralmente. E un bene rifugio, il vino. Uno di quelli che il mercato se lo mangia (anzi, se lo beve) perché non conosce crisi e i suoi titoli sono sempre in positivo. Per capirci: una bottiglia acquistata a cento euro circa dieci anni fa, oggi, potrebbe costare sette volte il suo valore originario. C’è chi fa affari, col Barolo: altroché. Affari sonanti. Quotati, addirittura, su una borsa dedicata, la London international vintners exchange, che funziona né più né meno come quella di Wall Street o di Piazza affari. Solo che li, al posto degli indici Nasdaq o Dow Jones, ci si calibra sul Liv-ex che calcola le variazioni del Bordeaux, dello Champagne, dei vini del Rodano, di quelli italiani e del resto del mondo. A questo punto c’è da fare una precisazione: il vino quotato, il vino che, tanto è prezioso, viene persino messo nei caveau (esistono, esistono: a Milano ce n’è uno, per esempio) è quello “di lusso”. Il “fine wine”, il vino di qualità: come lo chiamano gli addetti ai lavori, tastevin che ciondola dal collo e calice rigorosamente pieno davanti da far oscillare perché il suo contenuto si ossigenizzi. Investire nel vino (attenzione: come per tutte le operazioni finanziarie, improvvisarsi esperti non è il punto di partenza migliore) può fruttare fino al 10% in un anno e tra il 160% e il 192% in dieci. Hai detto niente. I rendimenti dell’oro non valgono così tanto, almeno nel breve periodo: con i lingotti e le pepite, infatti, si guadagna circa il 7% in dodici mesi (in vent’anni il 370%, ma quello è un altro tipo di business e, quindi, di discorso). A Treviso, Alessandro Pavan, che è un ragazzo sveglio, si è pure inventato un’app: si chiama Incellar, ed è una start-up che si occupa proprio di questo, di investimenti nei vini pregiati. Qualche dritta? Gabriele Gorelli, che è il primo master of wine italiano, cioè una sorta di superesperto mondiale (cene sono solo 418 in tutto il pianeta), in una recente intervista al Gambero Rosso, ammette che ci sia “un’assoluta predominanza della Toscana” nel settore “con più del 50% delle quote. A seguire circa il 40% del mercato è del Piemonte e meno del 10% è appannaggio delle altre regioni”. Non è sempre stato così. Fino a una ventina di anni fa i vini di pregio parlavano per lo più francese, oggi l’inversione di rotta vira sul nostro Paese. Ma nello specifico, cosa bisogna considerare quando si vuole investire in un rosso (o in un bianco o in rosè o in una, perché no, bollicina) da mettere in cantina come altri stiperebbero titoli di Stato nelle cassette della banca? Gli elementi sono quelli classici, identici alle scelte per la tavola: l’etichetta (ci sono produzioni rare o rarissime che vengono imbottigliate in quantità limitata e, ovviamente, fanno lievitare il prezzo), l’annata (cioè il livello di maturazione del vino) e la zona di provenienza. Tra l’altro il vino è considerato un bene deteriorabile, per questo non gli viene applicata la tassa sul capital gain, ossia sul guadagno in conto capitale. A maggio di quest’anno, durante un’asta di “fine wine” (sì, il vino “di lusso” si vende anche all’asta, esattamente come i quadri dei grandi artisti), da Pandolfini, a Firenze, una singola bottiglia da 75 centilitri di Musigny domaine leroy del 2008 è stata battuta la bellezza di oltre 67mila euro (67.375, per essere precisi): roba che a noi comuni mortali verrebbe quasi la paranoia. Quando la trovi, l’occasione giusta per aprire una bottiglia da 67mila euro? Ma il punto è proprio questo: mica la apri. La conservi, fai crescere il suo valore e, all'occorrenza, se hai bisogno di “liquidità” (termine più che mai azzeccato) ci copri il rosso dell’Iban. Piccola postilla: alla fine ci guadagnano tutti, anche l’economia tricolore. Quello del vino è uno dei settori in cui il made in Italy non ha proprio niente da insegnare agli altri. Nella classifica dei dieci vini migliori del mondo, secondo Wine spectator che è uno dei magazine più accreditati nell’ambiente vinicolo, ce ne sono ben tre italiani: il Brunello di Montalcino riserva 2016 (della cantina Fattoria dei Barbi), il Tignarello 2019 (prodotto dalla Antinori) e il Saffredi, ancora del 2019 (fiore all’occhiello della Fattoria Le Pupille). È che l’uva toscana (sono tutti vigneti regionali) deve avere quel qualcosa in più. D’accordo, sul gradino più alto c’è un Cabernet sauvignon oakville double diamond del 2019, imbottigliato dalla Schrader Cellars, un’azienda califomiana, ma vuoi mettere? Tanto per cominciare, la Storia: a coltivare l’uva, in Toscana, iniziarono gli etruschi intorno al VII secolo avanti Cristo e il Chianti classico (che va bene è più “popolare” delle rinomate bottiglie di cui sopra, però è pur sempre un vanto nazionale) ha trecento anni di esperienza alla spalle. In secondo luogo i nostri finalisti sono tra i più costosi in lizza: il Brunello costa 130 dollari alla bottiglia; il Tignarello ne vale 145 e per il Saffredi servono cento dollari tondi tondi. La qualità ha un prezzo. E alla peggio, se proprio l’investimento va male, si può sempre “stapparlo” e berci su. Non capita mica con i diamanti.

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