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Libero

Ok il prezzo è ingiusto: l’agricoltura è in pericolo ... “Barolo esclusivo o Barolo democratico? Questo è il problema!”. È andata in scena nei giorni scorsi una tragicommedia ideologico-agricola che ha posto un interrogativo amletico evitando accuratamente di dare risposte. C’è chi ha sostenuto: così non va, il vino quest’anno sarà svenduto, non è accettabile che il Barbaresco venga ceduto allo sfuso a poco più di un euro. Significa affamare i contadini. C’è chi ha risposto: Ma come ? Si dovrebbe esultare perché finalmente anche i non abbienti possono bere bene. Riferisco sommariamente per dare il perimetro di una riflessione che mi pare, una volta che si sfocia nei rinfacci ideologici o di appartenenze presenti o passate, necessaria per rimettere le cose a posto. Sarebbe preferibile che tante energie fossero spese non in polemiche sui prezzi che significano poco o nulla, quanto per affermare i valori e per chiedersi che posto ha l’agricoltura nel nostro modello di sviluppo. Che piaccia o no in Italia ancora un milione e mezzo di persone campano direttamente sulla terra, che piaccia o no se si considera l’indotto e l’agroalimentare si sale vicini ai quattro milioni, che piaccia o no questo export assicura al nostro Paese quasi un quinto dei suoi introiti esteri, e se si declina con il turismo questo settore diventa il primo motore economico del Paese. Eppure la sua marginalizzazione è costante. Spunta invece di tanto in tanto, erratico nelle cronache come nelle polemiche, l’iceberg dei prezzi. Il punto non è se sia democratico o no poter comprare delBarolo a due euro (o un Brunello, fa lo stesso) anche perché nessuno riuscirà a farlo. Ci penseranno gli speculatori e gli imbottigliatori comunque a proporcelo a quotazioni al consumo ben più elevate. Il punto è se il vino, ma anche l’olio extravergine, i formaggi, la verdura e i salumi, la frutta e il pesce prodotti in Italia hanno ancora un valore e se le opzioni di consumo sono o no indirizzate a percepire quel valore. Ci sono due dati, arrivati in questi giorni, che si possono mettere in connessione e spiegano che cosa sta accadendo. Il consumo di elettronica (in primis telefonini) è cresciuto quest’anno del 18 per cento, per contro la Cina si prepara a invadere l’Italia con centomila tonnellate di concentrato di pomodoro, quasi un sesto della nostra produzione. Cosa significa? Che se si continuano a contrarre i consumi alimentari per fare spazio ad altre opzioni di acquisto il cibo cattivo finirà per scacciare quello buono. È appena il caso di ricordare le mozzarelle arlecchino, il latte in polvere, l’olio tunisino, il pesce marcio che viene dall’Est, la contraffazione sistematica dei marchi italiani. La protesta dei pastori sardi che sono migliaia sull’orlo del lastrico, che per i media vale infinitamente meno della telenovela dell’isola dei cassaintegrati della Vinyls, anche loro sardi e disperati, a dimostrazione che i problemi dell’agricoltura sono prima di tutto una minorità del settore. Si tratta di comprendere che senza ridare fiato ai consumi alimentari (magari rimettendo in tasca ai cittadini un po’di soldi e distribuendo diversamente i pesi fiscali a cominciare dall’Iva) la nostra agricoltura è destinata a scomparire. Tutti i prezzi del comparto agroalimentare sono ingiusti. Lo sono all’origine con un litro di latte pagato 30 centesimi, con il grano nazionale che spunta 18 euro al quintale per chi lo coltiva, ma viene rivenduto alla trasformazione al doppio, con l’uva che è pagata al di sotto della sussistenza, con le olive che saranno pagate il prezzo di quaranta anni fa. Lo sono al consumo finale con ricarichi che non hanno giustificazione alcuna. È in questa spirale che si inserisce il cibo cattivo. Ma a fargli posto è la sinecura in cui viene tenuta la nostra agricoltura. Che deve imparare a stare sul mercato da sola, ma che ha bisogno di non avere lo stesso costo del lavoro dell’industria perché i suoi bilanci sono gravati dagli immobilizzi patrimoniali, perché il suo operare è comunque a sovranità limitata data la forte ingerenza europea, perché il suo valore non è dato solo dai prodotti che ci offre, ma dalla tutela del nostro patrimonio. Non saranno né i farmer market, né i chilometri zero, né gli alti lai sulle sorti dei “poveri contadini” a riequilibrare l’economia agricola. Serve una distribuzione efficace, serve un abbassamento del costo del lavoro, serve ridare valore ai prodotti della terra. Evitando i populismi. Tutti vogliono andare in auto, ma nessuno pensa che una Ferrari debba costare come un Panda, né pretende la Ferrari democratica. Non si capisce perché vino, olio o formaggi debbano costare poco. Ricardo, uno dei padri dell’economia classica, avendo stabilito che il valore delle merci è pari al valore del lavoro immagazzinato nelle merci medesime, ammetteva poche eccezioni. La prima erano proprio i grandi vini che già nel ‘700 valevano non per ciò che sono, ma per ciò che danno. Capisco che in un epoca di peana alla tecnologia, all’innovazione, alla surmodernità (come se tecnologia e ricerca agricola non fossero in questo Paese nonostante tutto all’avanguardia) pensare ai campi come l’Arcadia faccia tanto fine, o credere che tanto qualcuno ci darà da mangiare faccia comodo. Ma così non è. Se l’agricoltura morirà pagheremo tutti: distruggendo il paesaggio, rischiando la salute, vanificando un pezzo di Pil rilevante. Scopriremo allora davvero che: ok, il prezzo è ingiusto!

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