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Libero

Una perla dell’Oltrepò ... Il salame di Varzi va in cantina per ritrovare un gusto antico … Il Salame di Varzi è senza dubbio una perla dell’Oltrepò Pavese. In quel triangolo di Lombardia a sud del fiume che gli antichi romani chiamavano Eridano, i vini di pregio abbondano: spumanti, neri vivaci come il Bonarda, rossi impegnativi come il Pinot Nero. Perso quel poco di industrie che negli anni del boom economico avevano aperto da queste parti (con l’eccezione della Valvitalia di Salvatore Ruggeri e poco altro) l’Oltrepò fatica a ritrovare quella vocazione al turismo enogastronomico che potrebbe ridare a queste terre un futuro e una prospettiva di sviluppo. I soliti particolarismi, operatori turistici non proprio “illuminati”, un orizzonte comune che si perde fra le nebbie della Pianura Padana. Che da queste montagne si intravvede in distanza. Una storia parallela, quella del Salame di Varzi e della terra da cui nasce. La storia di una Dop, la Dop in assoluto dell’Oltrepò (anche perché è l’unica) si intreccia coi destini tormentati di queste vigne e di questi campi scoscesi che si inerpicano per le valli del preappennino. Di questo salume se ne fanno 380mila chilogrammi l’anno che poi, a fine stagionatura diventano 260mila. Ma il mercato è difficile: la concorrenza della grandi industrie si fa sentire, soprattutto nella grande distribuzione, così il Varzi rimane confinato in una nicchia. Pur ricca. Ma c’è chi ha avuto un’idea capace di rilanciare l’intera produzione della Valle Staffora: affinare il salame in cantina, nelle cantine d’una volta, dopo la stagionatura in cella. Legando ogni singolo pezzo a una determinata cantina. Un po’ come accade con i grandi cru francesi, associati indissolubilmente alla vigna d’origine. L’idea che potrebbe rilanciare anche le produzioni di salame artigianali, escluse dalla Dop per motivi di disciplinare, è di Eugenio Barbieri (nessuna parentela con il sottoscritto), un vulcanico produttore di Rivanazzano Terme, divenuto un volto noto dopo le sue partecipazioni alla trasmissione tv “La prova del cuoco”. “I produttori devono puntare sull’originalità, sull’unicità del loro salame”, spiega Barbieri. “Soltanto così possono valorizzarlo e venderlo bene. D’altronde si tratta di un ritorno all’antico, alle tradizioni contadine che si sono perse nel tempo. Una volta i nostri contadini stagionavano così i loro salami, appesi alle volte delle cantine”. Non si tratta però di abbandonare la stagionatura in cella di sei mesi, prevista dal disciplinare, ma di affinare un prodotto che è già unico. C’era da superare un ostacolo non trascurabile: le solite leggi europee, scritte apposta per favorire la grande industria alimentare. Le stesse che rischiavano di far sparire il lardo di Colonnata e i formaggi stagionati in grotta. Per questo le asettiche celle a temperatura costante hanno soppiantato le vecchie cantine odorose di muffe, indispensabili alla stagionatura, e onuste di tradizioni. Ora questo vincolo non c’è più: le Asl accettano la stagionatura d’una volta. Con pochi accorgimenti le vecchie cantine possono tornare in funzione. “E ne abbiamo censite parecchie nella nostra valle che sarebbero pronte anche domani”, spiega Barbieri. Che si tratti di una strada percorribile lo dimostra l’interesse riscosso dall’idea di Eugenio. La scorsa settimana ha fatto una puntata da queste parti il supercuoco Gianfranco Vissani, proprio per capire come funzioni l’affinamento in cantina. “È un modo per riappropriarsi di una qualità e un gusto dimenticati”, ha detto. Positivo anche il giudizio del Consorzio di tutela del Varzi Dop. “La produzione secondo il disciplinare”, spiega il direttore Annibale Bigoni, “garantisce una stagionatura minima, di sei mesi. Ma c’è in effetti una clientela che apprezza un prodotto stagionato più a lungo. Anche per diciotto mesi e più. L’affinatore però deve partire da salami con un calibro maggiore”.

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