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Libero

Così riusciamo a dimenticare l’enoturismo ... Manca una politica per i beni culturali Vigne e cantine ne sono le prime vittime ...Riavvolgiamo il nastro. Correva l’anno 1992, il signor Ciravegna sei anni prima ci aveva consegnato al mondo per lo scandalo del metanolo. Il vino italiano viaggiava per lo più in cisterne e in damigiana. Ne facevamo tanto e ne bevevamo tanto, lo vendevamo poco e male. Donatella Cinelli Colombini confortata dai suggerimenti scientifici di Magda Antonioli - guarda un po’: professoressa della Bocconi! - dette il là al Movimento turismo del vino. E fu Cantine Aperte. Avevamo copiato - in meglio - dai francesi. E ci aspettavamo di lì a poco che l’enoturismo sarebbe diventato una risorsa forte dello sviluppo nazionale, di una nuova cultura della ruralità, di una visione diversa e più orgogliosa dell’agricoltura. Passarono altri sei anni e Flavio Tattarini - deputato allora dei Ds e poi presidente dell’Enoteca Italiana - presentò la legge sulle Strade del vino. Sembrava la costruzione di un sistema. Ma oggi mi tocca d’indossare i panni di Mr. Stevens - noi giornalisti spesso siamo dei maggiordomi dei fatti - e chiedermi quel che resta del giorno. È successo che il vino italiano si vende bene all’estero (ultimamente un po’ meno) e che ha prezzi più remunerativi, ma che il consumo interno si deprime ogni anno di più. È successo che eccessi mediatici, ricchi premi e cotillons, hanno staccato il vino dalla sua origine agricola al punto che oggi si deve rincorrere il concetto di territorio per dare a gran parte delle nostre etichette un’identità. Ma è successo purtroppo che l’enoturismo è rimasto un si dice. Fabio Taiti, lucido ricercatore, con il Censis Servizi ogni anno stila il suo rapporto sull’enoturismo. E racconta che i clienti potenziali sono sei milioni e per di più sono tra i vacanzieri più danarosi. Si sa - lo dice l’Isnart dell’Unioncamere - che l’enogastronomia è il secondo attrattore del turismo in Italia e il primo motivo di soddisfazione. Dunque: l’enoturismo è un pilastro del sistema Paese? No. Lo dimostrerà domani Cantine Aperte. Dopo vent’anni è ripetitiva, ossificata in una formula ormai più funzionale alla comunicazione che non alla comprensione del valore del vino. E questo accade perché non c’è stata alcuna valorizzazione dei territori rurali come bene culturale. Vigne e cantine soffrono dello stesso male che fa crollare Pompei, che non riesce a tutelare e valorizzare i nostri musei, che fa sì che l’Italia detenga un enorme patrimonio d’arte e di paesaggio ma non lo metta né a reddito, né a valore condiviso. Basti dirne una: le cantine non possono fare degustazioni a pagamento, né organizzare tour nei loro vigneti se non hanno la licenza di agriturismo. Invece basterebbe assimilarle alla normativa fiscale e giuridica dei musei per farle diventare a pieno titolo luoghi della cultura del territorio ivi compresi i beni architettonici e monumentali. Questo dovrebbe essere l’enoturismo: che sfrutta l’attrattore vino che parla con il linguaggio dei sensi narrando le suggestioni complessive di quell’immenso patrimonio che si chiama Italia per valorizzare la ruralità. Un patrimonio che può produrre una nuova economia: non delocalizzabile, non attaccabile dalla globalizzazione. È una prospettiva concreta eppure sembra il mondo dei sogni.

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