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Panorama

La sfida del vino - Chi vince sul mercato Usa. L'Italia si beve tutti ...

Francia-Italia, cinque contro cinque sul neutro della California. Detta così, con i quintetti, si potrebbe pensare a una partita di basket, invece è una sfida all’ultimo chicco (d’uva), su un campo che non è certo un rettangolo in parquet di 28 metri per 14, bensì un quadrato terroso che ha un lato di circa 122 chilometri, più o meno la superficie compresa tra Milano, Torino, Imperia e Genova trasportata oltre oceano. Da una parte i campioni in carica transalpini, quintetto base composto da Cabernet, Chardonnay, Merlot, Pinot e Shiraz, dall’altra gli sfidanti verdi, bianchi e rossi: Barbera, Malvasia, Nebbiolo, Primitivo (che gli americani hanno ribattezzato Zinfandel) e Sangiovese. In palio il predominio tra i filari del Nuovo Mondo, partita tuttora in corso, dal risultato aperto: la Francia ha dominato il primo tempo, durato un secolo, ma è partita malissima nel secondo. Non solo tra gli scaffali delle enoteche e dei supermercati, ma anche tra i vitigni. In California, che da sola rappresenta il 95 per cento della viticoltura a stelle e strisce, come ha fatto notare Nicola Dante Basile sul Sole-24 Ore, i produttori estirpano i classici ma certo non eterni (come si pensava) vitigni francesi (Cabernet e compagnia vinificando) per impiantare il meglio d’Italia, su tutto il Sangiovese poi gli altri quattro moschettieri. E sono estensioni da far venire i brividi: nel 1990 in California gli ettari vitati erano 838mila, nel 2000 sono risultati quasi il doppio (un milione e 420 mila) e tra quattro anni saranno almeno due milioni, con una notevole percentuale di “cloni” italiani.
E non si pensi che la tragedia delle Torri Gemelle e la conseguente guerra in Afghanistan, abbiano messo in discussione questa tendenza. Ha detto Gianni Legnani, factotum della Berlucchi in Franciacorta, massimo esperto italiano di bollicine francesi: «La gente viaggerà meno, specie verso luoghi ritenuti a rischio, magari il marito attenderà a cambiare auto e la moglie la pelliccia, forse entrambi rinunceranno a qualche cena nei ristoranti stellati da 200mila lire a testa ma proprio per tutto questo si starà di più a casa. Torneranno così in auge le belle cene tra amici con grandi piatti casalinghi bagnati da grandi bottiglie perché dovremo pur consolarci e cercare, comunque, di vivere bene». Ha aggiunto Sirio Maccioni del Le Cirque a New York: «Non abbiamo mai chiuso e noi ristoratosi possiamo solo ringraziare il sindaco Giuliani che ha spronato i nuovaiorchesi ad andare al ristorante. Sarà così, me lo auguro, però potrà accadere come dieci anni fa ai tempi della crisi del Golfo quando nessuno voleva ostentare la propria ricchezza e magari usava lasciare la limuosine un blocco più in là e si presentava a piedi».
C’è quindi il rischio che pochi ordinino bottiglie da migliaia di dollari come ha notato Giorgio Pinchiorri nell’enoteca che a Firenze porta il suo cognome: «Dopo l’11 settembre abbiamo perso il 70 per cento della clientela americana e buona fetta di quella giapponese a tutto vantaggio di italiani ed europei. Chi deve viaggiare in aereo adesso ha paura». Ma la vendita delle grandi bottiglie francesi era già in affanno. Sempre Pinchiorri: «I timori per la tenuta dell’economia avevano già spinto molti a mettersi meno in mostra. Da me è già un anno che sono calati i tavoli dove ordinano etichette da due milioni a tutto vantaggio di quelle tra le 300 e le 600mila lire. A Tokyo, dove abbiamo l’altra enoteca-ristorante, da sempre ho venduto un 70 per cento di vini francesi, da un anno in qua invece resistono i grandi francesi ma quel 70 lo faccio con i grandi italiani: sono ottimi e costano meno».
Sotto accusa i prezzi dei campioni di Bordeaux e Borgogna. Pinchiorri: «Mi hanno appena offerto 6 Petrus annata 2000 a 6.300 franchi la bottiglia e in generale, per coprirmi con l’ultima annata, ho dovuto rivolgermi alle banche perché due miliardi di lire non sono uno scherzo e devo onorarli subito. Il problema è che tutto questo è successo prima dell’11 settembre, nel mio ambiente ora si teme che quando i grandi compratori americani dovranno confermare i loro ordini, di norma coperti con un anticipo del 20%, preferiranno perdere la caparra nel timore che questi vini-leggenda non trovino più un mercato specie se le operazioni militari dovessero davvero continuare a lungo. Non basta: il Bordeaux del 2001 si preannuncia come un annata modesta, avremo quindi un eccedenza di 2000 a prezzi inferiori degli attuali». Sono uve che rischiano di venire declassate, buone giusto per vini che negli States vengono venduti a 5 dollari la bottiglia quando uno Château Latour non ne può costare meno di 200.
Ma la Francia era sotto pressione già prima dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle. Il vino francese è un gigante a cui stanno cedendo le fondamenta. Resta per volume economico il numero 1 al mondo con un fatturato attorno ai 1.365 miliardi di lire (6,5 billion di dollari) ma pesa il sistema di piccole cantine sovente a conduzione famigliare. Regioni come la California o l’Australia invece hanno colossi che possono macinare cifre inimmaginabili per i francesi la cui quota di mercato in Usa in tre anni è scesa dal 7 al 5% mentre gli australiani, dal 1995, hanno triplicato la presenza toccando il 3%. Non basta: delle dieci più grandi compagnie del pianeta, solo una è francese e non è nemmeno sul podio, la Castel Freres, sesta. Nessuna è italiana e tutte le altre arrivano da nuovi paesi protagonisti, la Gallo, n.1, è californiana, la Foster seconda australiana, la Seagram, terza, canadese. Impressionano i balzi percentuali di import vinivolo in Usa nel periodo gennaio-aprile 2001 rispetto allo stesso periodo del 2000: +9% l’Italia, +44% l’Australia, +39% il Portogallo, +27% l’Argentina, +12% la Spagna, persino un +7% la Germania e la Francia? Più 3%, uno sbadiglio insomma. Solo noi italiani in quattro mesi siamo psaliti da un export Usa pari a 141,47 milioni di dollari a 156,19. Poi è arrivato Bin Laden a rimescolare le carte.
Ad esempio il gruppo fondato in Napa Valley da Robert Mondavi, il patriarca del vino californiano, un emigrato marchigiano di 87 anni, nono gruppo vitivinicola al mondo il suo, ha sposato a Montalcino la Frescobaldi per ritrovare le sue radici italiane. Assieme, con Luce, hanno vinto il premio Vino dell’Anno Vinarius 2001 (è l’associazione delle enoteche di qualità), ma Luce resta un fiore all’occhiello, il grande business è in California. Ha detto Michael Mondavi: «Il nostro obiettivo è sfondare nella fascia di alta qualità». Gli statunitensi e con loro neo-zelandesi e australiani, cileni e argentini, hanno un grande vantaggio su Francia e pure Italia: clima regolare, inferiori costi di manodopera e, privi di un passato secolare, non hanno problemi “etico-morali” nel proporre qualsiasi tipo di prodotto puntando sul vitigno, Chardonnay, Merlot..., e non sui marchi preso atto che i nuovi mercati si perdono tra le migliai di Doc e châteaux. Ha detto Tiziana Frescobaldi, p.r. dell’azienda di famiglia: «Il sistema francese è entrato in crisi per il suo incredibile frazionamento che ha impedito si aggiornasse. Ha continuato a comportarsi da monumento. Il Nuovo Mondo invece, nello stesso periodo, ha dimostrato che se investi e ti impegni, fare ottimi vini non è una prerogativa solo francese o italiana». Non solo soldi e sudore però, è anche un problema di palato. Ha detto Elda Felluga (suo padre Livio, anni 87 pure lui, è il patriarca del vino friulano): «Papà quando era bambina mi bagnava le labbra col vino e mi chiedeva se sentivo la pesca o la menta. I ragazzi di oggi invece sono abituati a bere Coca-Cola e mangiare hamburger. Chiaro che i winebar, offrendo il vino a bicchiere, danno loro l’opportunità di conoscere il vino, ma certo non sarà quello dei castelli francesi». E di questo scemare di appeal francese, ne beneficiano i nuovi. Ha detto Angela Velenosi, produttrice emergente ad Ascoli: «Il mercato si divide tra pre-11 settembre e dopo 11 settembre: prima capivi dalle ordinazioni che per il vino italiano in America era il boom, stufi dei prezzi impossibili dei nostri cugini, dopo è un mercato da ricostruire. Il dubbio è uno solo: si berrà sempre, magari di più a casa, ma chi produrrà il vino per le case degli yankees? E se per patriottismo preferissero il loro vino?».
Intanto il vino italiano si celebra. Grazie a Giovanni Longo, presidente di Vinarius, Milano ha festeggiato i venti produttori dei venti vini top degli ultimi vent’anni: Ferrari e Bellavista, Antinori e Biondi Santi, Ceretto e Braida, Lungarotti e Masi, Braida e Banfi, Berlucchi e Frescobaldi con il sindaco di Milano gabriele Albertini nonimato ambasciatore del vino italiano. Ha spiegato Longo: «Milano è moda ma è anche sempre stata grandi cibi e grandi vini. Negli ultimi anni la sua immagine si era offuscata, è il momento di farla tornare splendente. C’è più interesse ovunque, i vini italiani hanno gusti e personalità diverse da quelli francesi che i nostri giovani e gli stranieri stanno scoprendo e sempre più apprezzando. Non siamo più il Paese del fiasco e della damigiana». Il fiasco lo lasciamo ai francesi...

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