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Panorama

Bottiglia pazza. Fine della mistica del vino… Non bisogna stupirsi della crisi del vino, bisogna stupirsi che sia arrivata così tardi. I segnali c’erano stati. Primo campanello d’allarme qualche tempo fa: la feroce parodia di Antonio Albanese, quella con il sommelier esaltato che fa roteare il bicchiere 10 minuti per poi esclamare che è bianco. Segno che il vino si stava trasformando da status symbol a argomento per barzellette. Secondo campanello, recentissimo: Anna Falchi maritata Ricucci che si lamento con il Corriere della Sera del conto pagato al ristorante di Vissani, 800 euro a testa. “Una follia. Lui ha detto che avevamo scelto un gran vino, ma mica lo avevamo scelto, ce lo aveva appioppato lui”. Segno che i prezzi stellari hanno stufato tutti, anche i pochi che se li potrebbero permettere. Negli ultimi giorni, per far capire il concetto anche ai più duri d’orecchio, hanno cominciato a suonare non più i campanelli ma le campane, per la precisione quelle di Gianni Zonin, 11 tenute, 1.800 ettari di vigne, nome più fragoroso dell’Italia del vino: “I prezzi dell’uva sono in forte caduta, e il consumo interno si è contratto dell’11%”. Ci salvano le esportazioni? Macchè. L’export è calato in quantità e in valore. La situazione deve essere grave se Zonin che fino a ieri pensava positivo, come è buona regola di ogni imprenditore, oggi fa concorrenza ad autori apocalittici come Guido Cernetti ed Emile Cioran, colui che ha scritto Sulle cime della disperazione. Infatti non parla di difficoltà momentanea, ma di crisi strutturale con risvolti tragici. “Molte piccole cantine avranno difficoltà a sopravvivere. Vedo a rischio migliaia di posti di lavoro: in campagna, in cantina, nella distribuzione e nei media”. In pratica il produttore veneto sta avvisando centinaia di giornalisti enogastronomici di cercarsi una nuova occupazione. Ma non è questo il problema: anzi una potatura al marchettificio di convegni e fiere, di riviste e guide potrebbe far bene a un settore sovraccarico di costi impropri. Il sogno di ogni saggio bevitore è pagare il vino e non il marketing. Difficile che possa avverarsi completamente, ma forse grazie a questa crisi ci saranno risparmiate le trovate da Billionaire, le cantine disegnate dal designer le cui parcelle sono inversamente proporzionali alle competenze enologiche, o le bottiglie gioiello che quando le bevi capisci che anno speso più per il contenitore che per il contenuto. Piccole soddisfazioni che non cancellano la malinconia per la fine del Bengodi vinoso, crisi le cui cause sono facili da identificare e difficili da rimuovere. Eccole.
La fine di un ciclo. Qualcuno ricorda l’esplosione dei whisky di malto? Se la sera non bevevi Macallan eri un buzzurro. Se non sapevi riconoscere un Glenlivet da un Glenfiddich eri beffeggiato anche negli spot. Poi plof. Che cos’era successo? Niente. Il whisky era sempre quello, non c’erano stati né crolli qualitativi, né rialzi dei prezzi. Semplicemente lo scotch aveva concluso un ciclo, i bevitori snob avevano cominciato a sfogliare la guida del Gambero Rosso. E chi di moda ferisce di moda perisce. I prezzi alti. Quando un prodotto è fuori moda, anche se te lo regalano è troppo caro. Vale anche l’inverso: nessuno sbuffa di fronte al listino della Mini perché l’alto prezzo di un oggetto di culto fa parte del fascino. Analizzando vecchi listini, il centro studi della Banca nazionale del lavoro ha scoperto che il prezzo in cantina di uno dei più noti Brunello di Montalcino, il Fattoria dei Barbi, è aumentato in termini reali solo del 38% in 50 anni. Meno del previsto, molto meno del percepito. E allora di chi è la colpa dei prezzi? Due gli indiziati: il solito governo ladro (le tasse) e il proverbiale oste della malora (i ricarichi). Le cantine-caveau. C’era una volta il vino della casa. Poi il cameriere cominciò a elencare a voce qualche vino della zona. Quindi spuntò una piccola carta, con parecchie etichette nazionali. Oggi nel più normale dei ristoranti ci sono carte dei vini pesanti come libri da messa. Le cantine sono diventate caveau degni di una banca o di una casa d’aste, dove riposano bottiglie anche internazionali che si vendono ogni morte di papa, i cui prezzi devono remunerare l’immobilizzo di capitale.
La bara dei sapori. L’Italia ha la più grande varietà di vitigni del pianeta, circa millem ma i gestori degli happy hour ne servono due: Chardonnay e Muller Thurgau. Nelle carte dei ristoranti pagine e pagine sono occupate da soporifere variazioni: i Cabernet con aggiunta di Nero d’Avola, i Neri d’Avola con aggiunta di Cabernet… Chi sopravvive ai vitigni tutti uguali soccombe di fronte al monosapore (di legno) causato dalla barrique, la bara dei vini, la piccola botte che sta rendendo indistinguibili i siciliani dai cileni, che però costano meno e la crisi non sanno che cosa sia.
I vini anticrisi. Affinchè questo articolo non getti bevitori e venditori nello sconforto, si propongono alcuni vini scacciacrisi attorno ai quali organizzare la riscossa. Molto diversi, bianchi e rossi, frizzanti e fremi, con alcune caratteristiche comuni: rigorosamente non di moda, quindi non cari, ricavati da vitigni autoctoni, e quindi con una personalità originale, da bersi giovani e senza passaggio in barrique, quindi con sapori e profumi di uva e non di legno. Parliamo di Bianchello del Metauro e di Cagnulari sardo, meritevoli e sconosciuti, di Prosecco e Lambrusco, strafamosi e snobbati dai bevitori che giudicano una bottiglia dall’etichetta e non dal contenuto. Bevitori che questa maledetta crisi sta spazzando via e che noi non rimpiangeremo.

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