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Panorama

Tendenze - Il futuro delle vigne. Vino più multinazionale Avanzano colossi mondiali come la Constellation. Che fine faranno le etichette celebri? ... Il mercato del vino è in fermento. Nei paesi tradizionali i consumi crollano, impazzano invece in quelli anglosassoni, dove rossi e bianchi sono considerati così (alla moda) e fit (sano). In Italia oggi si bevono in media 51 litri a testa, contro i 73 di vent’anni fa, in Francia 56 litri contro i 135 degli anni sessanta. Andamento opposto in Gran Bretagna, dove il consumo di vino è alle stelle, al punto che i pub rischiano di essere rimpiazzati dai wine bar: l’Associazione nazionale dei pub inglesi ha lanciato una campagna “beer is beautiful”, per replicare al credo comune vino uguale fitness, contro birra uguale obesità (41 calorie per millilitro della birra contro 77 del vino).
Una passione, quella per il vino, condivisa anche dagli americani, ammaliati dal cosiddetto paradosso francese: la nazione dove è diffusa una dieta alimentare tutta burro, patè e vino ha un’incidenza di infarti tra le più basse al mondo. Gli statunitensi fanatici del fitness si sono quindi convinti che il vino aiuta a tenersi in forma. Negli Usa il boom dei consumi è stato alimentato anche dall’arrivo sul mercato di tantissimi vini con un ottimo rapporto qualità/prezzo. Sono i vini dei produttori definiti del nuovo mondo, provenienti dalla californiana Napa Valley, ma anche da Cile, Argentina, Sud Africa e Nuova Zelanda. La qualità di questi vini negli ultimi anni è migliorata decisamente, grazie all’elite degli enologi che oggi salta su un aereo e offre consulenze in tutto il mondo al punto da essere chiamati “flying winemaker”.
Questo insieme di cambiamenti spinge il mercato del vino verso una nuova configurazione. Il calo dei consumi interni obbliga Italia e Francia a guardare all’estero e a puntare soprattutto sui paesi anglosassoni dove la domanda è in crescita. La Gran Bretagna è il principale importatore, e là i preferiti sono i vini australiani. Gli italiani sono invece ai vertici dell’import negli Stati Uniti. “Negli Usa gli italiani sono stati bravissimi a commercializzare vini consumer friendly, legando la denominazione del vitigno al territorio, per esempio lo Chardonnay di Sicilia. Hanno reso più semplice il mondo del vino, trainato anche da una ristorazione italiana di qualità sempre più elevata” spiega Federico Castellucci, primo italiano negli ultimi 80 anni a dirigere l’”Onu del vino”, la Oiv (Organizzazione internazionale della vite e del vino).
Pochi i campi di gioco, tantissimi i partecipanti. “In Oceania” ricorda Castellucci “le prime quattro aziende controllano quasi l’80 per cento della produzione, si possono sedere intorno a un tavolo e definire le strategie. Se si dovesse fare la stessa cosa in Italia, con centinaia di migliaia di aziende non basterebbe lo Stadio Olimpico”.
Inevitabile un consolidamento. I tassi di crescita dei consumi di vino e le opportunità di economie di scala nella distribuzione e nel marketing hanno attratto l’attenzione delle major degli alcolici. Il produttore di birra Foster’s brewing international (australiano) ha acquistato nel 2000 la californiana Beringer wine estate holdings e lo scorso anno ha lanciato un’opa ostile sull’australiana Southcorp.
La maggiore azienda mondiale di vino è oggi l’americana Constellation brands, 4 miliardi di dollari di fatturato e una quota di mercato di appena il 4 per cento. Nel 2003 la Constellation ha comprato il primo produttore australiano (Brl Hardy): l’anno dopo il più importante player americano (Mondavi). L’entrata in Italia, con il 40 per cento della Ruffino della famiglia Folonari, è stata uno scossone. L’accordo per la Ruffino è stato “win win”, un vantaggio per entrambi. I Folonari hanno mantenuto il controllo dell’azienda e hanno guadagnato l’accesso a una distribuzione globale, gli americani hanno realizzato un sogno. Ma come oggi le aziende italiane di vino sono interessanti.
“Il prodotto italiano i distributori devono averlo. Non si può non avere la Ferrari quando si distribuiscono auto di lusso” è il paragone di Alessandro Bertolini, banchiere presso la Banca Rothschild. Qualche movimento c’è stato anche in Italia: la Campari ha comprato la Sella & Mosca e la Terrazzi e Puthod mentre nel capitale della Masi, famosa per il suo Amarone, è appena entrato un fondo di private equity. In generale però gli italiani sono poco propensi a cedere. “Il mercato italiano” sostiene Lamberto Gancia “è destinato a rimanere frazionato, è frutto della nostra storia e della nostra cultura, che porta ad avere tanti piccoli e medi produttori di qualità e pochi grandi gruppi concentrati”.
“In Italia, come in Francia, vi è un legame indissolubile tra famiglia e azienda” aggiunge Bertolini. “Ai grandi nomi del vino sono associate grandi famiglie: si pensi ai Rothschild per la Francia o agli Antinori per l’Italia. Perdere questo legame significherebbe snaturare l’essenza del prodotto. I marchi italiani sono molto ambiti, ma non sono in vendita. Per un grande gruppo sarebbe preferibile comprare il marchio e investirci in un’ottica di portafoglio di premium brand, ma in mancanza di questa opportunità ambiscono ad accordi di distribuzione”. Scelta dunque obbligata per entrare in Italia. L’altra big del vino, la statunitense con origini italiane Ernest e Julio Gallo, con la bolognese D&C.
Vietato restare immobili. Secondo Piero Antinori, membro dell’associazione Primum familiae vini, che raggruppa alcune delle più note e prestigiose famiglie produttrici. “la competizione globale è sempre più aggressiva. Occorre individuare le nostre peculiarità e cercare di valorizzarle al massimo per poter competere in un mercato che è totalmente cambiato negli ultimi anni”.


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