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Panorama

Sono il dottore che cura le bollicine ... Intervista. Ha una laurea in medicina ma ha ereditato la passione di famiglia: dedica anima e corpo allo champagne. Richard Geoffroy è lo chef de cave della Dom Pérignon. E sostiene di raggiungere quasi la perfezione... Ciuffo al vento e modi cortesi, Richard Geoffroy, 54 anni, dopo una laurea in medicina si è dedicato a quella che da sette generazioni è l’attività di famiglia: il vino. E nell’Abbazia di Hautvillers, dove il monaco Pierre Pérignon scoprì il segreto per tenere le bollicine prigioniere nel liquido, Geoffroy viene spesso a cercare l’ispirazione. Da 12 anni è lo chef de cave della Dom Pérignon e decide, in base al sole, allo zucchero e all’acidità del vino, come fare lo champagne più famoso del mondo: quanto Chardonnay (la delicatezza) e quanto Pinot nero (la potenza) miscelare.

La semplicità e l’armonia si trovano in natura o sono frutto di un lavoro?

E certamente il risultato del lavoro. Ed è quello che facciamo per creare il Dom Pérignon.

Quanto è difficile arrivare all’equilibrio e quanto è un talento di natura delle uve?

C’è un lavoro tecnico, ma di questo non voglio parlare. Poi c’è il talento. Ci sono tanti buoni enologi, però la differenza la fanno la sensibilità, la cultura, l’esperienza, la personalità. Il talento viene nutrito dalla mia ricerca. Per questo il Dom Pérignon è tanto buono.

La sua creazione è uno strumento per far avvicinare la gente?

Sì. Il motore dell’ispirazione è raggiungere i momenti di condivisione.

Ma il Dom Pérignon è un prodotto di lusso, lo possono condividere davvero in pochi...

Il fatto che sia raro e non possa essere moltiplicato fa parte dell’emozione del progetto. Il lusso del possesso è volgare, il lusso di un’emozione condivisa è elegante. Ecco, il lusso è la comprensione di un’emozione.

Lei usa spesso la parola giapponese “umami”. Di cosa si tratta?

E un principio universale del gusto, un concetto coniato dai giapponesi all’inizio del secolo. E’ la sublimazione del gusto che nasce da un piatto. E la cucina che sprigiona più umami non è quella giapponese, ma quella italiana. Certi pomodori, i funghi, l’olio, le acciughe, il parmigiano vengono fusi per creare un insieme.

L’umami è un valore soggettivo?

Sì, è soggettivo perché la percezione dei sapori ha una componente culturale molto importante. Ma è anche oggettivo: esiste un brodo giapponese a base di alghe e tonno essiccato e grattugiato, abbinato al Dom Pérignon 1999, che è pazzesco, è sublime. Quello è umami.

Ha mai bevuto uno champagne fatto da altri più buono del suo?

Può capitare.

E questo la stimola a migliorare?

A un giornalista dell’Independent che mi chiedeva quale fosse il mio piacere nascosto ho risposto: bere il vino degli altri. Comunque sì, non mi arrabbio e cerco nuovi stimoli. Non vivo in una bollicina, mi piace sentirmi in concorrenza.

Come sarà l’annata 2008?

È troppo presto per dirlo.

E il 2007?

Non eccezionale, ma solido.

Cos’è l’eleganza?

È il rispetto di se stessi e degli altri.

Qual’ è la cosa più difficile nella creazione dello champagne? Qual è il suo limite?

Ogni vintage è una sfida e la difficoltà è riuscire a sapere se sono andato sufficientemente lontano nella ricerca degli equilibri.

Ha mai detto: siamo arrivati al massimo?

No, ma ci siamo andati vicini.

Quale anno è stato il migliore?

Il 1996. C’erano concentrazione, audacia e forza notevolissime. Quello è stato il punto più vicino al massimo dal punto di vista dell’equilibrio. Non solo forza, ma grande armonia.

I suoi figli saranno enologi?

Spero di no. E troppo difficile per i giovani. Devono sentirsi in pace con se stessi e riuscire a realizzarsi.

Bordeaux o Bourgogne?

Bourgogne tutta la vita. Nel Bordeaux sono di un rigore giansenista insopportabile, la Borgogna è fantasia.

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