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I Piwi, una nicchia che sogna di essere la soluzione all’emergenza climatica

A WineNews le riflessioni di Nicola Biasi sul ruolo dei vitigni resistenti, tra esigenze di mercato e possibilità per la viticoltura
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I vitigni resistenti, o meglio Piwi

La ricerca ha fatto passi da gigante, lo scetticismo nei confronti della genetica in agricoltura ed in viticoltura sembra un ostacolo sempre meno insuperabile, e così i vitigni resistenti si scoprono una realtà solida, ancora di nicchia, ma pronti a farsi largo nel mondo del vino - italiano e non solo - in maniera trasversale a territori, denominazioni e approcci agronomici, come risposta ai cambiamenti climatici - e quindi alla necessità di impattare il meno possibile sull’ambiente -, ed alla necessità di garantire una produttività adeguata alle necessità dei mercati e alla sostenibilità economica delle aziende. A WineNews ne abbiamo parlato, nella cornice del Merano Wine Festival, con l’enologo Nicola Biasi, produttore e guida della rete di impresa “Resistenti Nicola Biasi”, che riunisce realtà come Albafiorita, Ca’ Apollonio, Colle Regina, Della Casa, Poggio Pagnan e Vin de La Neu.

“I passi fatti sin qui sono enormi - dice Nicola Biasi - sia a livello di studi genetici che si stanno portando avanti, sia da un punto di vista legislativo, perché i vitigni resistenti sono stati autorizzati in diverse Regioni d’Italia, ad oggi solo nelle Igt, ma presto anche nelle Doc, come, seppure in via ancora ufficiosa, dovrebbe essere previsto dalla nuova Pac, e questo segna un passaggio importantissimo. In quanto alle superfici vitate, in Italia siamo tra i 700 e gli 800 ettari, che non sono tantissimi, ma neanche pochi, si parla di un potenziale produttivo di qualche milione di bottiglie da vitigni resistenti. Molti vigneti non sono ancora in produzione, ma è un movimento che sta crescendo, anche a livello qualitativo, perché abbiamo imparato a piantarli nel posto giusto e a vinificarli nel modo giusto, e i risultati stanno arrivando di conseguenza”.

Il futuro, però, non è nella nicchia, al contrario, l’ambizione dei Piwi è quella di tracciare la strada per l’intero mondo enoico, un obiettivo altissimo, ma su cui le idee sono piuttosto chiare, come racconta ancora Nicola Biasi. “La strada da seguire è relativamente semplice, bisogna fare ottimi vini, perché il consumatore deve acquistare un vino che gli dia piacere, non per alimentarsi, come avveniva qualche decennio fa; non dobbiamo sbagliare, perché in passato sono stati fatti vini, da vitigni resistenti, qualitativamente non validi, e se dovessimo ricadere nell’errore, convincere il consumatore sarà ancora più difficile; serve che qualche grande produttore, che pesi davvero, faccia il primo passo e aiuti i vini da vitigni resistenti nella comunicazione, un aspetto fondamentale. Bisogna far sapere alla gente che questi vini sono buoni, anche perché dal punto di vista della sostenibilità concreta, oggi i vitigni resistenti sono l’unica risposta che funziona. Se dimostriamo quanto incidono, positivamente, sull’impronta energetica di un’azienda, e se riusciamo nell’intento di fare dei buoni vini, non vedo perché da nicchia non possa diventare qualcosa di più. Naturalmente, ci sono forti interessi dietro a tutto questo, perché se - usando un iperbole - la viticoltura mondiale decidesse di convertirsi nel giro di dieci anni alla viticoltura resistente, con le aziende che farebbero 2 trattamenti all’anno, e non 20, ci sarebbero diversi aspetti economici da valutare. In un momento come questo, però, in cui è fondamentale fare qualcosa per il territorio, per l’ambiente e per il nostro mondo, la strada da percorrere è quella”, continua la guida delle rete di impresa “Resistenti Nicola Biasi”.

Un primo ostacolo, però, è rappresentato proprio dal consumatore finale, e dalla difficoltà a scardinare certi preconcetti, così come gusti legati a consuetudini bel salde, da decenni se non da secoli. “Il wine lover è abituato a bere - ad esempio - Ribolla Gialla. Capisco le difficoltà di uscire dalla propria comfort zone e cambiare - riprende Nicola Biasi -, è un passo difficile. Ad oggi, tutti i vitigni resistenti, sono varietà diverse da quelle conosciute, nascono da un vitigno classico che viene incrociato - quasi sempre - con una vite asiatica, ma il sangue europeo è sempre superiore al 95%, quindi manteniamo le caratteristiche qualitative positive ed otteniamo la resistenza. Però, come detto, è un vitigno nuovo, che va raccontato, spiegato e, soprattutto, ha dei gusti nuovi, che se da un punto di vista è una gran bella cosa, dall’altro è difficile da spiegare. Scientificamente - spiega Nicola Biasi - c’è la soluzione per fare una Ribolla Gialla, o un Sangiovese, identici a come li conosciamo ma resistenti, o con la cisgenesi o con il genoma editing, ma non sono ancora autorizzati, per cui non si possono fare. Questo, ovviamente, renderebbe tutto più semplice, e ci permetterebbe magari di usare un Sangiovese resistente, un giorno, per fare un Brunello. Ovviamente, non è la Toscana la Regione che ha più bisogno dei vitigni resistenti, quanto invece il Friuli Venezia-Giulia, il Veneto, il Trentino, la Lombardia, zone dove piove molto e si devono fare molti trattamenti, e dove ridurli è fondamentale. In futuro, però, l’idea di farne meno anche dove se ne fanno pochi, come a Montalcino, mantenendo inalterata la qualità delle uve, non ci deve spaventare”.

Questo legame con la tradizione e con la ricchezza ampelografica del vigneto italiano, è anche un filtro al giudizio che si dà dei Piwi, almeno per ora, tenendo però sempre bene a mente l’obiettivo di lungo termine: produrre vini buoni e sostenibili, sapendo che ad una rivoluzione del genere non basta una manciata di anni. “Rispetto ai Piwi ci sono diverse correnti di pensiero, c’è chi ne è entusiasta e chi meno, ma in Italia abbiamo indubbiamente un legame fortissimo con il vitigno autoctono, che capisco sia difficile da sradicare. Eppure, se pensiamo, di nuovo, a Montalcino - fa notare Nicola Biasi - sessanta o settanta anni fa c’erano forse più vigneti di Malvasia e Trebbiano che di Sangiovese, eppure oggi il Brunello è uno dei vini che meglio rappresenta l’Italia nel mondo. È considerato un vino della tradizione, ma in fin dei conti ha una storia recente. È stata una rivoluzione compiuta in pochi anni, per cui nulla toglie che si possa fare con un altro vitigno. Anche perché le varietà resistenti su cui stanno lavorando Fondazione Edmund Mach e Vivai Cooperativi Rauscedo presentano vantaggi enormi. Pensiamo al Trentodoc, con i vignaioli che spostano sempre più in alto i propri vigneti, perché alle quote “normali” soffrono il caldo provocato dai cambiamenti climatici, fino ad arrivare, inevitabilmente, a quote impossibili. Utilizzare vitigni nuovi vuol dire utilizzare vitigni che, oltre ad essere resistenti alle malattie, sono stati studiati per essere più performanti con il clima che abbiamo oggi. Perché sbattere la testa contro vecchi vitigni, a cui dobbiamo tutto, ma che sono ormai diventati anacronistici per le loro caratteristiche? Raccogliere una varietà i primi di agosto, perché altrimenti matura troppo, vuol dire che questa varietà non va più bene, e dobbiamo farcene una ragione: l’obiettivo - conclude l’enologo alla guida della rete di impresa “Resistenti Nicola Biasi” - è quello di fare grandi vini e inquinare poco”.

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