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SPUNTATURE

Oslavia = “orange wine”

Gli “orange wine” nello scenario enoico italico arrivano negli anni Novanta del Novecento. Ma in realtà, quella che oggi è una vera e propria tipologia a sé stante (una nicchia nella nicchia, a ben guardare, che però ha trovato finalmente spazio nel disciplinare del Collio), nelle campagne italiane c’è sempre stata, come frutto di vinificazioni empiriche e molto rustiche. Di più. In Georgia, all’inizio della produzione umana di vino, si ipotizza che proprio così nascesse il nettare degli dei: con la fermentazione di uve bianche a contatto con le bucce e i raspi, e con il mosto lasciato, anche per mesi, in anfore di terracotta (i kvevri) interrate. Una pratica così antica e identitaria, che l’Unesco l’ha riconosciuta nel 2013 come Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità. Ma come si produce oggi un “orange wine”? Macerando le bucce delle uve bianche con il mosto, cioè il loro pigiato: un processo che può durare poche ore o diversi mesi ed essere effettuato in acciaio, legno o terracotta. Nel primo caso otterremo un bianco il cui contatto con le bucce avrà soprattutto “caricato” il colore giallo; nel secondo caso, il vino sarà davvero “arancione” e dotato al palato di una sensazione tannica. E le uve? Quelle dalla buccia più spessa, in grado cioè di sostenere una macerazione prolungata. Una delle migliori è la Ribolla Gialla e non è un caso che la riscossa degli “orange wines” italiani sia partita da due produttori friulani, Joško Gravner e Stanko Radikon, che hanno dato impulso a tutto un territorio, l’areale di Oslavia. Dove oggi esiste l’Associazione Produttori Ribolla Oslavia - composta da Prinčič, Fiegl, Il Carpino, La Castellada, Primosic, e ovviamente Radikon e Gravner - che sforna progetti inerenti al tema, come il percorso scandito dalle panchine arancioni poste nei vigneti, o come il calice ad hoc “T-made 95 Oslavia” by Italesse.

(fp)

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