Il nome di Ampelio Bucci è di quelli che da soli varrebbero tante e belle pagine, in un’eventuale storia ragionata della rinascenza del vino italiano di alta gamma. In un’Italia (si sa, a partire da quella del Risorgimento) fatta di regioni, città, campanili e gloriosi vessilli ultralocali, quello di casa Bucci si chiama indubitabilmente Verdicchio di Jesi. La sua griffe è stata una delle prime a credere e a legarsi ad alto livello al vitigno e al territorio, esplorandone (e comprovandone in bottiglia, e nelle straordinarie, ripetute performance di qualità e longevità) la stamina. Ma, come succede in questi casi, se in famiglia c’è un rampollo prodige che buca, per così dire, lo schermo, il rischio è che altri, pur fantastici a loro volta, finiscano per godere - ad andar bene - di minor luce e più scarne occasioni di gloria. È il caso, qui, dei due rossi: il Villa, classicità e vigore, e il Pongelli, nelle annate giuste la grazia fatta vino. Rosso estivo, lo definisce il suo mentore. Seta, frutto (la susina matura su tutti) e freschezza per quanto riguarda chi scrive, con la tannicità delle uve due componenti (pur presente) trasformata in aereo foulard da potenziale cilicio del palato. Una di quelle bottiglie che glorifica il piacere del sorso, senza mai sfiorare neppure da lontano lo stagno melenso della banalità. E che ha pieno diritto al premio di uno spazio finalmente dedicato.
(Antonio Paolini)
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