Esiste un prima e un dopo, almeno per quanto concerne la viticoltura calabrese. Un prima e un dopo Librandi, ad esser precisi: da quando, nel 1953, la famiglia decise di dimostrare a tutti, senza se e senza ma, che la più autentica e viscerale autoctonicità locale avrebbe meritato sorte più nobile e duratura, rispetto ad abitudini ancora vincolate a fatalismi e approssimazioni. Cioè a quegli elementi che avrebbero soltanto continuato a ledere alle potenzialità enoiche di una regione invero variegata e bellissima. Tutta l’attività che ancor oggi vede al timone gli eredi della dinastia, però, deve le scelte più illuminanti del suo percorso soprattutto a due figure, Antonio e Nicodemo Librandi, di cui il primo mancato purtroppo alcuni anni fa: a loro si devono le sperimentazioni, le ricerche e gli studi, in collaborazione con l’Università di Milano, che un giorno hanno portato anche al recupero dell’uva Magliocco, oltre che all’ampliamento della superficie vitata e del numero di etichette. Vini sempre ineccepibili sotto l’aspetto tecnico, che arrivano dai 260 ettari di vigneti posti nelle condizioni più felici del territorio e che vedono sempre come portabandiera i Cirò bianchi, rosati e rossi. Fra questi ultimi anche il Duca San Felice: caratterizzato da toni balsamici, floreali e di ginepro, macchia mediterranea e liquirizia, seguiti da un palato elegante, morbido e persistente.
(Fabio Turchetti)
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