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Questione di grandi numeri, di riconoscibilità allo scaffale e di investimenti in comunicazione: in maggioranza da Australia (Yellow Tail n. 1) e Cile (Casillero del Diablo n. 2), i marchi più forti del vino, secondo la ricerca di Wine Intelligence

Come per ogni settore di mercato, a fare la forza di un marchio sono la sua capacità di essere riconosciuto e ricordato tra altri mille, il tasso con cui questo si traduce in acquisto, ma anche la capacità di un brand di farsi percepire come “affine” ai gusti e ai valori di un consumatore, che, consigliandolo, diventa poi il suo primo ambasciatore. Caratteristiche che, per essere messe insieme, soprattutto se si guarda al mercato dei grandi numeri, richiedono una massa critica di prodotto davvero importante, e investimenti in comunicazioni direttamente proporzionali.
Ecco perchè sono tutti colossi i marchi che dominano la classifica del “Global Wine Brand Power Index 2018”, realizzata dall’agenzia di ricerca inglese Wine Intelligence, e approfondita a ProWein, ottenuta dalle risposte di oltre 16.000 consumatori di vino tra Usa, Uk, Francia, Germania, Cina, Australia, Brasile, Canada, Cile, Irlanda, Giappone, Portogallo, Sud Corea, Spagna e Svezia.
Al n. 1 assoluto, infatti, si trova l’australiano Yellow Tail della Casella Family Brands, seguito al n. 2 dal cileno Casillero del Diablo di Concha y Toro e a chiudere il podio Mouton Cadet del gruppo francese Baron Philippe de Rotschild, a parimerito con WoodBridge, uno dei tanti marchi di Robert Mondavi. Robert Mondavi che è al n. 5, davanti ad un altro americano, Gallo Family Vineyard del gruppo E. & .J Gallo, e poi ancora, Jacob’s Creek (Australia), Beringer (Usa), J. P. Chenet (Francia), Gato Negro (Cile), Carlo Rossi (Usa), Barefoot (Usa), Frontera (Cile), Santa Carolina (Cile) e Lindeman’s (Australia).


“Non deve stupire - spiega Lulie Healstead, ceo di Wine Intelligence - se a dominare questa classifica sono marchi di Australia e Cile, due Paesi che producono meno del 10% del vino mondiale, ma dove grandissime realtà controllano la maggioranza della produzione che finisce nel mondo”. E nemmeno deve stupire l’assenza di marchi italiani dalle prime posizioni, a livello globale, viste le dimensioni con cui ci si confronta nel grande mercato di massa, inarrivabili, ad oggi, in termini sia di volumi produttivi che di investimenti di marketing anche per le più grandi realtà italiane, rispetto alla concorrenza del nuovo mondo e, in parte, della Francia.
Un’analisi, quella di Wine Intelligence, che torna ad affermare un concetto forse banale, ma decisivo, quando si parla al mercato di massa. Al di là della qualità del vino, della sua distintività, il primo passo è quello di avere un marchio che, prima di tutto, si fa notare visivamente, e ricordare tra le centinaia di migliaia che esistono.

Emblematico, secondo WineIntelligence, il caso di Barefoot: tra i marchi di vino comprati regolarmente dai consumatori, è passato, in 10 anni, da una quota dell’8% al 26%, e questo perchè la sua “awarness”, ovvero la sua conoscenza tra i consumatori, è cresciuta dal 27% al 71%. Una dinamica simile anche a quella di Yellow Tail o del Casillero del Diablo, ovvero vini su cui si è investito molto nel lavoro sui loghi, sulla comunicazione e sulla diffusione. Ed essere immediatamente conosciuti e riconosciuti allo scaffale, spiegano i dati, è determinante, perchè la scelta di acquisto avviene in pochi secondi.

Ed anche in mercati maturi, come Usa e Uk, il consumatore medio conosce o ricorda appena 17 marchi del vino, e di questi ne acquista regolarmente (almeno una volta negli ultimi 3 mesi), soltanto 3.

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