Sull’orlo del crinale. Sì, comunque la si pensi qui si è proprio a un punto di non ritorno. Organolettico, va precisato, perché il riaffacciarsi dei Radikon a qualcosa di antico c’è già stato, grazie al recupero di filosofie vinicole radicate nel tempo: quando il vino apparteneva alla quotidianità, senza sovrastrutture modaiole o di mercato, avendo una sua ragion d’essere (oltre che nella convivialità) come nutrimento, identità e appendice familiare. Un approccio radicale, che ha visto Stanislao Radikon (Stanko, per gli amici del vino) diventare man mano protagonista di quella corrente che poi si sarebbe trasformata in un fiume in piena, portatrice al mare di un’infinità di produttori fedeli al verbo. Un caposcuola suo malgrado, va detto: data la condotta vitivinicola assolutamente personale, che in anni passati lo vedeva spesso accusato di eretismo visionario, di sovversione dell’ordine precostituito. Purtroppo Stanko non c’è più, ma Saša ha ben saldo il timone in mano: fermo nelle sue macerazioni sulle bucce, nell’utilizzo di solforosa solo ove strettamente necessario, nella cura manuale di quel vigneto con radici profonde, sulle colline argillose di Oslavia. Jakot non è un vino facile, sia chiaro: ma la sua personalità si tocca con narici e papille, grazie ai toni ammandorlati, di erbe alpestri e di frutta sotto spirito. Con palato inizialmente ritroso, poi invece larghissimo.
(Fabio Turchetti)
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