Assaggiando il Fiano d’Avellino CampoRe ti vien da pensare che è un po’ come George Clooney: meglio incontrarlo quando arriva quel tocco di brizzolato. Il 2016, in questo caso, l’annata in commercio. «Un vino che ha tanto da dire quando non è più giovane - conferma Daniela Mastroberardino - Tradizionalmente il Fiano veniva affinato per lunghi periodi e abbiamo cercato di recuperare questa storia. Dico sempre che è una specie di operazione archeologica». La prima vendemmia di questa “riserva” nel 1998. L’uva proviene da alcune parcelle selezionate del vigneto nella Tenuta di Lapio, Campore, dove si respira l’Irpinia più selvaggia. Qui i vigneti corrono su e giù per le colline tra 350 e 700 metri d’altezza, respirando l’aria del mare. Si vendemmia tardi, a fine ottobre, quando arriva il primo freddo. Oggi, dopo anni di sperimentazioni, l’enologo Paolo Mastroberardino ha scelto la via: fermenta in barrique e affina “sur lie” per sei mesi, poi riposa in bottiglia per almeno 24 mesi. E quel vento selvaggio e gentile che accarezza le vigne, accarezza anche i sensi quando si apre una bottiglia. Ha il bel colore pieno dei bianchi che conoscono il sole del Sud. Gli agrumi danzano con miele, vaniglia, una nota lieve di pietra focaia. In bocca, è gioia e complessità. È il vino con cui papà Walter brinderà alle sue 88 vendemmie tra pochi giorni, il 25 gennaio. Provato con spider nighiri ossia un roll di sushi con granchietto fritto e una punta di maionese di wasabi.
(Fiammetta Mussio)
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