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TESTIMONI D’ECCELLENZA - ANGELO GAJA RIPERCORRE PER WINENEWS LA STORIA RECENTE DEL BAROLO, E LANCIA IL SUO MONITO: “BASTA CON I TONI POLEMICI…”

Italia
Angelo Gaja, uno dei più importanti produttori italiani

Quando a ripercorrere la storia di un’area vitivinicola d’eccellenza come il terroir del Barolo è un piemontese tra i più grandi produttori italiani, forse il più famoso nel mondo, non c’è dubbio che le sue parole abbiano la valenza di un importante indicatore di rotta per addetti ai lavori ed appassionati del buon bere. Angelo Gaja compie per Winenews un’analisi lucida e approfondita della storia recente del Barolo, raccontando gli avvenimenti degli ultimi anni e soprattutto lanciando un monito ad abbassare i toni polemici nati intorno ad uno dei più prestigiosi vini italiani. Dialogo, riflessione, tolleranza: ecco la “ricetta” di Gaja per migliorare le cose. “Suggerirei al Consorzio del Barolo, con pazienza, di riprendere le fila del gruppo dei giovani produttori, riavviando con essi il dialogo, inventandosi occasioni di incontro, di conferenze, di riflessioni. Occorre aiutare i giovani a crescere più rapidamente, a non commettere i nostri errori, ad essere tolleranti, a proteggere il bene comune (nella fattispecie, la denominazione Barolo), a rispettare i colleghi. Non è buonismo – continua Angelo Gaja - non sono esercizi inutili. Allentare la tensione, il clima di pace armata che serpeggia tra gli schieramenti dei produttori, è altrettanto importante che fare promozione”. Il vignaiolo che ha creato etichette da sogno, come il Sorì Tildin o il Sorì San Lorenzo, ripercorre così la storia della sua terra.
Largo ai giovani, arrivano i nuovi produttori del Barolo
“Nell’Albese - racconta Angelo Gaja - fino agli anni Sessanta e Settanta il mercato aveva disegnato una piramide gerarchica, alla sommità della quale stavano i produttori di Barolo proveniente da sottozone di elevata vocazione (come Cannubi, Vigna Rionda, Bussia, Brunate, Monprivato), oltre ad alcuni marchi che si erano nel tempo distinti per un’ attenzione costante alla qualità. A metà anni Ottanta è avvenuto un grande cambiamento, con l’irruzione sul mercato di un nutrito gruppo di produttori-viticoltori, alcuni dei quali appena usciti dalla scuola enologica, e di altri non più giovanissimi imprenditori agricoli, tutti decisi a ribaltare le sorti del Barolo. Le ragioni sono svariate: i proprietari di vigneti che mai in passato erano stati riconosciuti in possesso di una vocazione elevata, animati da un’ambizione e da una volontà nuova, raccolsero la sfida di produrre un grande Barolo ed affrontarono sacrifici economici rilevanti. Ci riuscirono riducendo drasticamente la resa in vigneto, prendendo un consulente che insegnasse loro la tecnica per produrre vini espressivi ed accattivanti fin da giovani, costruendo cantine più razionali; facendo uso (e talvolta abuso) delle barriques. Dall’altra parte quei viticoltori che avevano venduto in passato le uve provenienti da vigneti in sottozone di elevata vocazione, decisero di produrre e di imbottigliare in proprio, avvantaggiandosi dell’avviamento commerciale che, sul nome della sottozona, era stato costruito dal commerciante al quale in passato avevano venduto le uve. Sia gli uni che gli altri, per introdurre i loro vini nuovi di zecca sul mercato, si avvalsero della forza di una comunicazione emergente - guide italiane e giornalisti esteri - attenta ed entusiasta come non mai.
Da parte di questi nuovi comunicatori ci sono stati atteggiamenti di viva simpatia, di ammirazione e di protezione nei confronti dei produttori che, con passione e sacrificio, si accingevano a muovere i primi passi. Il mercato del Barolo trasse grande beneficio dall’ampliamento dell’offerta, mentre le guide italiane ed i wine-writers dilatarono lo spazio della comunicazione riservata al Barolo. I consumatori accorsero più numerosi da tutto il mondo, e la domanda per le annate molto buone ed ottime si impennò come mai era successo in passato, con l’effetto di un immediato aumento dei prezzi. La conseguenza fu che la piramide gerarchica dei produttori di Barolo subì uno scossone profondo, un quasi-terremoto: nelle posizioni alte della piramide, i tradizionalisti che vi si erano insediati dopo lunga militanza si videro costretti a fare posto ai nuovi produttori emergenti, ma la coabitazione apparve subito difficile e marcata da diffidenza. Il prezioso lavoro svolto in passato dai più bravi tradizionalisti non venne subito riconosciuto in Italia dai nuovi comunicatori, che sembravano invece rivolgere le loro attenzioni quasi esclusivamente alla crescente generazione dei nuovi produttori. Fu così che il mondo del Barolo si spaccò e, secondo consuetudine italica, produttori, comunicatori e consumatori si schierarono in opposte fazioni”.
La cultura del sospetto e la delegittimazione del Barolo
Angelo Gaja continua la sua testimonianza: “A metà degli anni Sessanta, gli addetti ai lavori stimavano che per ogni quattro bottiglie di Barolo prodotte, una sola fosse autentica, mentre le altre tre erano taroccate. Si chiama frode commerciale: il vino contenuto in bottiglia non derivava dal nebbiolo, ma aveva origine da regioni del centro-sud Italia. Sembrava una frode senza scampo, che avrebbe affossato il Barolo. Invece, nell’arco di trent’anni, quella frode mastodontica è stata sventata. Non per miracolo, ma grazie al contributo di diversi fattori, come l’entrata in vigore della Doc (1966), l’entrata in vigore della Docg (1981), l’azione incessante condotta per oltre vent’anni dall’ex Procuratore della Repubblica del Tribunale di Alba e dalla Camera d Commercio di Cuneo. Non dimentichiamo inoltre il cambiamento di mentalità dei produttori, l’effetto delle guide e dei giornalisti-degustatori. Ma c’era sempre stato, tra i produttori del Barolo, un pettegolezzo locale, un’accusa più o meno velata di illegalità. L’accusa era sempre la stessa: “altri” produttori facevano il Barolo con uve meridionali, più che con l’uva nebbiolo. Ma il pettegolezzo restava lì, circoscritto per fortuna al mondo dei produttori del Barolo, quasi un aspetto di folklore. Però le autocisterne in arrivo da fuori Piemonte le vedevamo tutti correre incessantemente, giorno e notte, a rifornire i vari committenti.
Negli ultimi sei anni c’e’ stato un crescendo: da fenomeno di folklore locale che era, il pettegolezzo sul Barolo “inquinato” per l’aggiunta sospetta di altre varietà non consentite è circolato più o meno velatamente, su quotidiani, riviste e siti internet, prima in Italia e poi anche all’estero. L’accusa è sempre rimasta anonima ed ha procurato una sorta di velata, insidiosa delegittimazione del Barolo, che ha causato una perdita di fiducia da parte del consumatore ed un conseguente calo della domanda. Fortunatamente sono arrivate ultimamente sul mercato una serie di annate strepitose, e la polemica si è attenuata. A proposito di questo però noi produttori dobbiamo ricordare che gli scriteriati spesso siamo noi, che alimentiamo il pettegolezzo: confidare o confermare ad un giornalista i dubbi ed i sospetti che abbiamo sul Barolo di un nostro collega, non è come dirlo ad un amico. Etica professionale suggerirebbe al produttore di evitare di parlare male dei vini degli altri: altrimenti si ferisce l’immagine del Barolo in generale, danneggiando tutti, anche sé stessi”. Angelo Gaja conclude il suo intervento con una nota di orgoglio per il mondo del vino italiano: “In attesa che la ricerca e la scienza ci diano metodi di analisi in grado di rincorrere le supposte furfanterie di ogni genere, noi produttori non dovremmo restare con le mani in mano. Per primo, dobbiamo prendere atto che la stragrande maggioranza dei produttori sono onesti, mentre le pecore nere sono rare: in confronto a quarant’anni fa, il mondo dei vignaioli è diventato un paradiso. Il gran numero di produttori onesti costituisce un patrimonio, una ricchezza che ci appartiene e della quale andare fieri”.

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