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ARCHEOLOGIA “AGROALIMENTARE”

Raccolte le olive da cui nasce l’olio di Pompei: “Pùmpaiia”. Che ora è anche Igp Campania

È prodotto dagli olivi di antiche cultivar tra gli scavi del Parco Archeologico, con Unaprol, e con metodi e tecniche descritte da Plinio il Vecchio

Tra le raccolte di olive dalle quali, in questi primi giorni d’autunno, si produce in Italia l’“olio novo”, ce n’è una dal “sapore” molto antico: è quella degli ulivi tra gli scavi di Pompei e degli altri siti del Parco Archeologico Patrimonio Unesco, Stabia e Civita Giuliana, dove sono presenti, in continuità con il mondo arcaico, le cultivar Minucciola, Ogliarola, Olivella, Pisciottana, Ravece, Rotondello e Nostrale, oggi a rischio estinzione. E dove, oggi, nell’Orto dei Fuggiaschi nella Regio I, i visitatori hanno assistito alla frangitura e degustato l’olio extravergine “Pùmpaiia”, dall’antichissimo nome della città romana, frutto del progetto con Unaprol e Aprol Campania, e che, ad un anno dalla prima produzione, ha ricevuto il riconoscimento a Igp Campania.
Una sintesi perfetta del legame tra enogastronomia e cultura che rende unica l’Italia, che fa di Pompei un vero e proprio giacimento di archeologia “agroalimentare” nella “Campania Felix”, ricordando la fortunata “Denominazione” del naturalista latino Plinio il Vecchio, morto proprio a Stabia per l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., e al quale, così come a Columella, “padre” degli agronomi, si deve la descrizione dei metodi e delle tecniche della raccolta delle olive nel mondo romano utilizzati anche oggi
. A far assaggiare l’olio, “I Ragazzi di Plinio”, giovani del territorio con autismo e disabilità cognitiva impegnati in attività di agricoltura sociale nel Parco con la Cooperativa Il Tulipano Onlus, e Coldiretti. “Il museo del Ventunesimo secolo deve uscire dagli ambiti tradizionali e abbattere barriere e confini - ha detto il direttore del Parco Gabriel Zuchtriegel - a Pompei abbiamo cominciato creando un’area nuova nell’organigramma per la cura e valorizzazione del verde”.
Come raccontato da Paolo Mighetto, direttore dei lavori della gestione del verde del Parco Archeologico di Pompei, a WineNews, tutto questo rientra e rientrerà nel progetto affascinante e di grande spessore, tra agricoltura e cultura, dell’Azienda Agricola Pompei, per la riqualificazione e valorizzazione del vasto patrimonio naturale del Parco, tra campi, orti didattici, oliveti e vigne, capaci di dare oggi produzioni agroalimentari che, nelle tecniche e nelle caratteristiche, affondano le radici ai tempi dell’antica Roma, tra cereali antichi, frutti, allevamenti, olio e vino. Vino che è grande protagonista del progetto, grazie alla nuova partnership tra Pompei ed un’Ati (Associazione Temporanea di Impresa), guidata da “La Guardiense”, tra le realtà cooperative di riferimento della Campania del vino, a sua volta guidata da Domizio Pigna. E che vede già pronti 1,7 ettari di vigna nella città antica, che potranno arrivare a 5,8 ettari nel prossimo futuro tra Pompei e gli altri siti, e da cui nasceranno vini legati alla sua storia ed ai vitigni autoctoni - negli anni passati è già stata fatta una selezione di varietà antiche, dal Piedirosso al Caprettone, dal Fiano al Coda di Volpe e al Greco di Tufo, attestati in queste zone fino all’eruzione del Vesuvio - a partire dal prossimo anno quando ripartirà la tradizionale vendemmia tra gli scavi alla Casa del Triclinio.
Pompei - scelta recentemente come location d’eccezione per un simposio di studiosi internazionali dedicato all’“Antichità della vitae e del vino”, dalla Georgia, “culla” della viticoltura mondiale, alla Campania, da dove la produzione di vino si è diffusa nel mondo allora conosciuto (in un viaggio ripercorso da WineNews in un video), e dal Governo italiano per il lancio dell’immagine della candidatura della cucina italiana a Patrimonio Unesco - continua a raccontare al mondo tutta l’antichità e la bellezza della convivialità, a partire dalla vita quotidiana della città “cristallizzata” sotto le ceneri del Vesuvio, in cui si contano qualcosa come 80 “botteghe alimentari” con smercio di “street food ante litteram”, e dove, prima dell’eruzione, si trovavano ben 35 panifici e 10 tipi di “panis”, dal Panis primarius al Panis siligineus, dal Panis artalaganus al Panis vulgaris, fatti “rinascere” dallo chef Paolo Gramaglia, una stella Michelin al ristorante President con vista sugli scavi, grazie alle sue ricerche sulla cucina pompeiana. Senza dimenticare l’ultima scoperta dell’affresco, risalente a 2.000 anni fa, che ritrae un piatto che assomiglia ad un “antenato” della pizza, e che ha ispirato la “Pizza Pompei” del maestro pizzaiolo Gino Sorbillo.
La civiltà romana fu quella che più d’ogni altra contribuì alla diffusione dell’olivo e al perfezionamento delle relative tecniche di coltivazione e di estrazione. L’olio divenne una delle principali ricchezze dei romani che conoscevano talmente bene il prodotto da mettere a punto tecniche e strumenti rimasti quasi invariati fino al XIX secolo. Fu Plinio a classificare l’olio in cinque categorie: l’Oleum ex Albis Ulivis, il più pregiato, ottenuto dalle olive verdi; l’Oleum Viride Strictìvum, da olive invaiate, usato per ungere il corpo; l’Oleum Maturum delle olive nere; l’Oleum Caducum con le olive cadute a terra; e l’Oleum Cibarium per gli schiavi dalle olive di scarto.

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