La storia gastronomica del Veneto è legata a un piatto fondamentale: la polenta. Nella patria del mais marano, comunemente, quando si parla di polenta si intende la polenta gialla. Fino al secondo dopoguerra nel Trevigiano, in realtà, si cucinava una polenta bianca. Il mais utilizzato è il “biancoperla”, acclimatatosi qui da tempo. La sua massiccia diffusione si colloca nella seconda metà dell’Ottocento, grazie anche alla sua maggiore conservabilità. Le pannocchie sono affusolate, allungate, con grandi chicchi bianco perlacei e vitrei, da cui si ricava la polenta bianca fine, delicata e saporita, detta anche “di Treviso” (Presidio Slowfood, animato da un gruppo di agricoltori che ha recuperato e nuovamente coltivato gli ecotipi originari di “biancoperla”). La polenta bianca era la base della “polenta e speo” (misto di carni di diversa pezzatura che vengono infilate nello spiedo, intervallato con lardo ed erbe aromatiche) e della “polenta e osei” (in particolare in particolare beccafichi, allodole, tordi o pettirossi, cotti allo spiedo o in padella, e insaporiti con lardo, burro e salvia), piatti a dir poco identitari. Eppure il mais bianco, che negli anni ’50 del secolo scorso era coltivato in oltre 50 mila ettari, ha rischiato seriamente l’estinzione. Borgoluce, accanto anche alla sua produzione di latticini, carni e salumi (e di Prosecco, tra cui l'ottimo Valdobbiadene Superiore Rive di Collalto) è una delle realtà che ha contribuito al rilancio di questa varietà di mais, testimone della tradizione e della biodiversità di queste terre, contribuendo alla sua salvaguardia.
(fp)
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