Sembra ormai che l’Etna stia consolidando il suo ruolo di zona di produzione d’elezione del vino siciliano. Alle sue pendici hanno stabilito la propria “sede distaccata” i nomi più importanti dell’enologia isolana, accanto alle aziende pioniere come Benanti, oppure alle piccole realtà artigianali come Girolamo Russo e Graci o, ancora, a qualche straniero che qui ha scommesso tutto come Cornellisen. Ci sono poi altri fenomeni significativi: dai top winemaker tricolore che si dividono le cantine dell’areale (come nelle zone più blasonate), alle “incursioni” delle prime firme enoiche italiane, come nel caso di Gaja. Insomma, gli ingredienti per rendere il Vulcano protagonista assoluto del vino siciliano ci sono tutti. Eppure, ci sono anche alcuni elementi che, in prospettiva, potrebbero diventare altrettante criticità. Il vino, prima di tutto. Ancora non sappiamo se sia, con accettabile sicurezza, un prodotto da grande invecchiamento come Barolo o Brunello, per fare solo qualche esempio; o se, invece, sia un ennesimo “divertissement” che sfrutta l'onda del momento, com'è accaduto altre volte nel caleidoscopio enoico italiano. Ancora, non sappiamo con un confortante margine di errore, se sia più una zona bianchista o rossista. Non che quest’ultima caratteristica sia così fondamentale, ma certo dovrebbe essere meglio compresa se, territorio e cantine, aspirano alle vette più alte. Perché, va da se, è difficile eccellere contemporaneamente con Nerello e Carricante. A mettere le cose su un binario più solido, dovranno pensarci i produttori, con testa e mani. Anche a costo di qualche rinuncia.
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