Comune? Castiglione, anzi “Castigghiuni”. Frazione? Passopisciaro. Pronunciate ora il nome in un qualsiasi gruppo di enofan, e tutti capiranno e annuiranno. Aveste fatto la stessa cosa una ventina d’anni fa, prima che l’Etna divenisse terra promessa (piccola Borgogna di vulcano e altura, fuoco e neve, lava e viti antiche e franche, capaci di negarsi alla fillossera) dell’Italia da vino più ambiziosa, curiosa, accorta e chic, il 99% vi avrebbe guardato con gli occhi vuoti di chi non sa, o non comprende. A dispetto dei grandi pionieri e resistenti che già lottavano con l’alberello ancestrale, il Nerello, il Catarratto e le altre uve minime che la vigna “selvaggia” di là annovera in catalogo. La storia fresca del vino italiano (e della sua prepotente rimonta) ci insegnano che, come nella tragedia greca, a risolvere catarticamente il problema di angoli vocatissimi ma semi-clandestini, quasi sempre ha aiutato assai l’intervento d’un deus ex machina. Quello che taglia i nodi e chiarisce il finale di storie straordinarie, bellissime, ma fin lì tanto intrecciate da risultare persino poco comprensibili. E, se non per l’Etna in genere, dove i Benanti, Foti, Graci erano (è il caso di dire) già a monte, per Passopisciaro frazione di “Castigghiuni” il ruolo del deus è toccato a Andrea Franchetti. L’uomo del “miracolo” di Trinoro, sbarcato nel 2000, si prende 40 ettari su, fino a 1000 metri, e inizia (come in Toscana) a provare, senza paura. Per convincersi (2008) che il vino “unico”, il taglio magico e totale, qui verosimilmente non è il top possibile. E comunque non l’unica strada. Che – mini Borgogna – quassù vale la legge dei cru. Cinque: Chiappemacine, Porcaria, Guardiola, Sciaranuova, Rampante, contrade e lave diverse tra loro per chimica, quota, esiti. Oggi “tutti campioni famosi per il mondo”, come cantava il grande Dalla in “Nuvolari”. Allora, litania esclusiva per soli adepti e iniziati. Ma a chi intuì, e fece, è giusto lasciare la licenza poetica della diversità meritata sul campo. Ecco perché tra i vini di Andrea ci piace scegliere quello che porta il suo nome. La griffe. Il Franchetti. L’ultimo “taglio” scelto per restare. Petit Verdot e Cesanese, nozze sulla carta balzane che la benedizione del vulcano e dell’autore (impartita curando le viti solo con tisane, argille e propoli, vendemmiando a fine ottobre e allevando il vino in acciaio, legni francesi e infine cemento) santifica in un trionfo quasi stordente di frutti neri e rossi, violetta candita e aromi dialettici di cedro. Potente e succoso, è un diverso dal fascino irresistibile e totale.
(Antonio Paolini)
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