Bianchisti anche in Italia

Nel continuo (e per certi aspetti necessario) confronto enoico con i nostri cugini d'Oltralpe è sempre stato abbastanza chiaro, in fatto di vini da uve a bacca bianca, che l'Italia pagasse ancora un certo distacco con l'analoga produzione francese. Molte cose sono cambiate e, forse, quel distacco si è tendenzialmente ridotto. Merito di questo fatto va di certo ascritto anche al Verdicchio che, senza inutili giri di parole, probabilmente è il vitigno più interessante, insieme a pochissimi altri (con buona pace della scomposta rincorsa alla scoperta e/o riscoperta della ricchezza varietale italica, talvolta rappresentata da vitigni di poco valore enologico) del panorama bianchista italiano. Prima di tutto non sfugge, tra le sue caratteristiche principali, quel suo saper affrontare il tempo che passa, migliorando. Una prerogativa, quella di apprezzare vini bianchi invecchiati, a ben guardare, poco praticata alle nostre latitudini, dove resta ancora imperante la cattiva abitudine di considerare i vini bianchi capaci al massimo di superare i 365 giorni dalla vendemmia. Fortunatamente, ci sono i mercati esteri, verrebbe da dire; ma questa ricettività deve essere accompagnata da un aumento della cultura enologica dei nostri stessi produttori, troppo spesso ancorati a vecchi stilemi. Detto questo poi, c'è da notare che anche per il Verdicchio vale la sfida che interessa tutta la produzione a denominazione del Bel Paese: creare un binomio inscindibile tra vitigno e territorio, unica risposta efficace alla globalizzazione, peraltro in fase calante, imposta dalla straripante diffusione delle “noiose” varietà internazionali. Ecco, ci piacerebbe sempre di più un Verdicchio che sia Verdicchio e basta.