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Breve storia del vino siciliano

Anno 1773. Un mercante inglese, John Woodhouse, assaggia un Marsala e ne intuisce le potenzialità di mercato. Il Marsala è un’eccentrica variante dei vini di Jerez e Porto e subito diventa un successo. La Sicilia, almeno a guardare i modelli delle vicende storiche legate al vino, grazie all'Inghilterra, come accadde per Bordeaux, si avviava a diventare un punto di snodo fondamentale per il vino, questa volta italiano. Dopo Woodhouse arrivano gli Ingham e il duca d’Aumale, che inventa un vino, lo Zucco, oggi praticamente estinto. Pure i Florio seguono l’esempio di Woodhouse. Nel 1908, la Sicilia enoica è Marsala, Malvasia di Lipari (che poi si fa a Salina), vino dello Zucco, Moscato di Siracusa e di Pantelleria. Tra alterne vicende, dalle crisi produttive all’abbandono delle campagne, dal latifondismo alla produzione grossolanamente quantitativa, arrivano gli anni Settanta-Ottanta del Novecento, quando un gruppo di produttori costituisce un vero e proprio movimento. La parola d’ordine diventa meno quantità, più qualità. Il ritrovato successo del vino siciliano diventa esempio per gli stessi siciliani, i quali, come diceva l’astemio Leonardo Sciascia, hanno sempre stentato a credere alla forza delle idee, autocondannandosi così a non cambiare mai. Nel 1992, Giacomo Tachis, un altro “straniero”, sbarca nell’isola all’Istituto Regionale della Vite e del Vino, ma soprattutto ispira tanti produttori emergenti, insieme a siciliani come Diego Planeta, Leonardo Agueci, Vincenzo Melia e Elio Marzullo. In Sicilia la sua scommessa parte dai vitigni indigeni: Nero d’Avola, Frappato, Insolia, Grillo, Cataratto e Caricante. Poi sappiamo come è andata.

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