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EDITORIALE

La compattezza di una denominazione

Prodotto nei comuni di Barolo, La Morra, Monforte, Serralunga d’Alba, Castiglione Falletto, Novello, Grinzane Cavour, con quelli di Verduno, Diano d’Alba, Cherasco e Roddi interessati solo con porzioni dei loro territori, il Barolo è la denominazione italiana che affonda la sua storia a metà dell’Ottocento, legandosi ai nomi di Camillo Benso Conte di Cavour e di Giulia Colbert Falletti che lo vollero fortemente. Una denominazione capace di restare ai vertici anche nel Nuovo Millennio, costruendo un sistema di focalizzazione delle aree produttive (le Menzioni Geografiche Aggiuntive), arrivato nel disciplinare di produzione nel 2010. La superficie dedicata al Nebbiolo da Barolo occupa 2.150 ettari (con un potenziale produttivo che può superare i 14 milioni di bottiglie) e un valore ad ettaro che arriva ai 2,5 milioni di euro (con i Cru che passano oltre). Un areale che ha saputo dare spazio ad un costellazione variegata di produttori, dai “Barolo Boys” (Roberto Voerzio, Beppe Caviola, Enrico Scavino, Renato Cigliuti, Elio Altare, Giorgio Rivetti, Chiara Boschis, Elio Grasso, per fare qualche nome) ai, continuando ad usare delle etichette, “tradizionalisti” (Lorenzo Accomasso, i Roagna, Claudio Fenocchio), dagli “anarchici” (Bartolo Mascarello, Teobaldo Cappellano, Giuseppe Rinaldi) fino a quelli che potremmo definire i “classicisti” (Beppe e Tino Colla, Giovanni Rosso, Giuseppe Mascarello, Guido Porro, i Fratelli Alessandria, Burlotto, Brezza, Brovia, Cavallotto, Aldo Conterno, Oddero e Vietti), accrescendo le diversità interpretative - arricchite anche dalle nuove generazioni, le sfumature e le sensibilità che soltanto un grande vitigno e un grande terroir unito possono alimentare.

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