Il Soave, specie in questa particolare fase di “ritorno bianchista” gioca una partita in attacco. Il recente inserimento delle “Unità Geografiche Aggiuntive” nel disciplinare è l’asso nella manica per un areale dove i principali elementi che compongono l’originalità di un vino, sembrano esserci tutti: dai vitigni di antica coltivazione alle specifiche particolarità pedoclimatiche, fino alla solidità delle aziende del territorio (che stanno pure conoscendo un’ulteriore aumento, visto che molti produttori del veronese includono sempre più spesso nel loro portafoglio aziendale il Soave). Le menzioni sono delle aree all’interno della denominazione storicamente valorizzate dalle singole aziende e dal Consorzio per la particolare capacità di produrre vini con una forte caratterizzazione. Meno del 40% (29 nella zona classica, 2 nella Val d’Alpone e 3 nelle vallate a denominazione poste ad ovest) dell’intera superficie della denominazione ospita i cosiddetti Cru, che dovranno essere vinificati separatamente, assicurandone una produzione limitata. Resta però aperta una questione e cioè quella, come sempre annosa, del “protagonismo” dei vitigni di antica coltivazione. Il disciplinare di produzione del Soave prevede un uvaggio tra Garganega, Trebbiano di Soave e Chardonnay e la possibile aggiunta di altre varietà, anche, benché con percentuali basse, nel Soave Superiore Docg. Una “pulizia” varietale dai vitigni alloctoni potrebbe essere un ulteriore passo verso una maggiore tipicità, con conseguente incremento di valorizzazione. Tanto più che nell’areale esistono Garganega e Trebbiano di Soave, decisamente due varietà su cui sarebbe giunto il momento di lavorare ancora più a fondo.
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