L’incontro tra passato (la storia, quando questa era terra da rossi e le uve eran quelle lombarde, Barbera in testa), presente (terra da bolle dallo skill ormai inequivoco, ma più in generale incarnazione di un’innovazione globale e riuscita, con l’adozione di vitigni certo non indigeni, ma perfettamente ambientati), e infine il futuro: che consiste nel raccordare il prima e il dopo per trarne nuova linfa e stimoli, senza perdere radici e memoria. E non è strano che ciò accada al meglio in un’azienda innovatrice anche sul fronte del gusto (pioniera dei non dosati), ma poi custode in apposito museo di tradizione e stimmate locali. E che si sostanzi anche nella produzione curata di vini fermi: un Pinot Nero 100%, il bianco da Pinot Bianco (sentite il bel 2016) e questo Rosso da unica location (ma dalla palette variegata, che fonde appunto quel che era e quel che è) fermentato in acciaio, elevato 18 mesi in carati di rovere, dal profumo appena venato di ricordi boisé e bocca consistente, “tirata” dalla Barbera e marcata in fin di sorso dagli aromi dei Cabernet e del “cugino” del Franc, il Carmenère (un tempo scambiato qui per lui).
(Antonio Paolini)
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