Roberto Alajamo nel suo “L'arte di annacarsi: un viaggio in Sicilia” cita Sciascia, per descrivere i siciliani, i quali “hanno sempre stentato a credere alla forza delle idee, condannandosi in questo modo a non cambiare mai”. Il vino è un'eccezione. E infatti dalla Sicilia del Marsala di Trapani, della Malvasia di Lipari e del Moscato di Siracusa e di Pantelleria di inizio novecento - trainati dall'intuito della famiglia inglese Woodhouse fin dal settecento, e dalla famiglia Florio poi – tanto è mutato. Il Rinascimento del vino italiano degli anni '70-'80 ha coinvolto anche la Sicilia, grazie ad alcune famiglie (Planeta, Rallo, Tasca fra le più note) che iniziano a credere all'enorme ricchezza e biodiversità dell'isola e nell'antica storia vitivinicola che la caratterizza, abbracciando il motto enologico “meno quantità, più qualità”. Si scommette inizialmente sugli internazionali, per far breccia nei mercati esteri, ma Giacomo Tachis negli anni novanta torna ad insistere sull'importanza degli autoctoni regionali e sulla definizione di zone vocate, come l'Etna (a cui WineNews dedica una monografia a parte). Si costituisce la Sicilia Igt nel 1995, soppiantata dalla Doc Sicilia nel 2011. L'obiettivo è salvaguardare la reputazione del brand Sicilia, promuovere e preservare in modo più incisivo le varietà locali (encomiabili sono il vivaio sperimentale Paulsen a Marsala, per valorizzare il germoplasma viticolo siciliano, e la Vigna del Gallo, che raccoglie la biodiversità viticola siciliana all'Orto Botanico di Palermo) e di migliorare la qualità, l'immagine e il posizionamento sul mercato dei vini controllandone la produzione (intento raggiunto: lo sfuso al litro nel 2012 valeva 75 centesimi, oggi si arriva a quasi un euro e mezzo). Ma al di là degli obiettivi, ha reso evidente un contesto unico in Italia, che varrebbe la pena replicare: il ritratto di una regione che appare muoversi compatta, unita ed entusiasta verso obiettivi sociali, agro-enologici, culturali, economici e ambientali condivisi.
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