Se i vigneti del Barolo si issano al vertice nella classifica dei terreni più preziosi del mondo (a 2,08 milioni di dollari ad ettaro, secondo il Knight Frank Luxury Investment Index) e il vino Barolo è addirittura sbarcato ad Harvard, sembrerebbe - al netto degli sconquassi mondiali che questi anni ci stanno regalando - che il suo successo resti una delle poche cose ancora su cui scommettere. Ma, inutile nasconderlo: anche nelle Langhe le condizioni climatiche ormai mutate danno da pensare. Soprattutto per una varietà, il Nebbiolo, e un vino, il Barolo, che devono tutto ai loro delicati equilibri, alle loro sfumature più intime e ai molteplici accenti dettati dai diversi Cru, e che il calore, lo diciamo con una battuta, tende a “bruciare”. E sono in molti a preoccuparsi davvero, produttori e appassionati in primis, guardando, per fare l’esempio più eclatante, a ciò che sta accadendo in Borgogna. Come non mancano coloro che giudicano questa “nuova fase” foriera addirittura di vini più confortanti (e più omologati) - e per alcuni anche migliori - magari guardando alla sola dimensione commerciale. Verrebbe da dire “meno male che siamo nelle Langhe”. Una terra che, unico esempio in Italia, è stata storicamente il teatro di un confronto squisitamente enoico tra “Barolo Boys”, “tradizionalisti”, “anarchici”, “classicisti”, capace di accrescere confronto e diversità interpretative (amplificando la curiosità del pubblico/cliente più esperto, cioè il “target” principale per un vino come il Barolo). Un terra che oggi sia, ci auguriamo, anche il luogo per guardare ad un problema epocale con la giusta sensibilità e il rigore necessario.
(fp)
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